Caro prof. Veronesi,
Come tanti, ho letto l’articolo
sul suo nuovo libro, dove fa l’affermazione che «il cancro, come Auschwitz, è
diventato la prova della non esistenza di Dio» e dove dichiara che «non può
pensare che un angelo custode guidi la sua mano quando incide e inizia
l’operazione».
Ho letto e, per un primo momento,
sono andato oltre. Mi ha fatto tornare sull’articolo la gentile provocazione di
un’amica che mi ha scritto: «Un tema delicatissimo ed intenso che ci tocca
tutti nel profondo. Sarebbe bello essere illuminati alla tua
"maniera"».
Un ossequio al pudore
Ecco, per cominciare, una
risposta alla mia “maniera” non può partire che dal condividere il pudore con
il quale il prof. Veronesi affronta la “realtà” del dolore. Dico realtà
e non tema o questione, perché il dolore è concretissimo, è esageratamente
intimo e im-mediato e nessun pensiero può intraporsi tra una persona e la sua
sofferenza. Per questo, professore, ha tutta la mia stima!
Il dolore a volte diventa un
discorso piacevole dove facciamo voli pindarici di pensiero, dimenticando che
stiamo parlando di vite spezzate, o almeno ferite. È uno dei pericoli a cui
sono esposti gli uomini di pensiero, teologi o filosofi che siano. Lei non ha
questo rischio e per questo La ammiro.
Bisogna accostarsi al dolore con pudore,
non solo per rispetto verso chi soffre e chi ha una persona cara nel dolore, ma
perché chi scrive (e chi legge) non è immune all’esperienza del dolore! Anzi,
nel caso di chi scrive, se Lei ha parlato in passato dell’alta probabilità che
“ci ammaleremo tutti di cancro”, questa probabilità, dato lo sterminio di
cancro tra la mia parentela, diventa quasi una certezza matematica!
Quindi non posso parlare del
dolore in una maniera disinteressata, distaccata o semplicemente teorica. Al
contrario, parlo da uomo che lotta contro la famosa tragica triade del male
come chiunque altro. Sono sicuro che Lei condivida con me almeno i due lati estremi
di questa triade: sofferenza-colpa-morte. La terza fa parte della definizione
dell’uomo secondo Heidegger!
Mi permetta di dirle che contro
la diffusa convinzione errata che il credente parli del dolore per difendere
Dio, ribadisco di parlare per difendere l’uomo, per ascoltare e aiutare
innanzitutto l’uomo che sono a districarmi dinanzi a questo inquilino
indesiderato; al male che arriva senza invito.
Il credente non è accecato al
problema del male, della malattia. Noi lo vediamo e come! Ne sentiamo il peso
più degli altri proprio perché professiamo la fede nel Bene, nel Sommo Bene. Il
male è contemplato – e a lungo! – nel nostro mosaico, se non altro perché ogni
volta che guardiamo a Gesù Cristo, vediamo nelle piaghe del Crocifisso
tutta la triade e non solo la sofferenza. Non a caso nella preghiera
paradigmatica insegnata da Gesù preghiamo per essere liberati dal male.
Pensi a quanti cristiani elevano questa preghiera tutti i giorni, tante volte
al giorno.
Chiarito il “pulpito” da cui
parlo, vorrei soffermarmi sulle due affermazioni con cui ho esordito citandola.
Vedremo come in realtà sono strettamente collegate.
Auschwitz: tomba di Dio?
Il male è stato da sempre uno
degli argomenti più spinosi posti contro l’esistenza di Dio: il male c’è
allora Dio non esiste. È questa l’obiezione da cui san Tommaso parte per
poi proporre le sue famose cinque vie per argomentare (qualcuno direbbe dimostrare)
l’esistenza di Dio (cf. STh. q.2 a.3). Auschwtiz rappresenta un’apoteosi
di questo male.
Sulla questione del dolore
innocente, delle varie forme di male (male naturale, male morale, male
metafisico), della genesi del male, ecc. ci sono fiumi di letteratura. Chi è
interessato può pescare a volontà tra i volumoni sul tema. Qui vorrei soltanto
mostrare che la prospettiva può essere rovesciata: il male c’è allora Dio
esiste.
Innanzitutto, visto che Lei stesso
rievoca Auschwitz, vorrei ricordare che tanti sopravvissuti ai campi di
concentramento, ebrei e non, dicono giustamente che la vera domanda non è:
«Dov’era Dio?», ma «Dov’era l’uomo?» (cf. Primo Levi). Chiedersi dov’era
Dio è chiudere un occhio sulla responsabilità dell’uomo che ha operato quel
grande male e dell’uomo che ha acconsentito tacendo. Lei è sicuramente
d’accordo che non erano gli angeli, cherubini, serafini e compagnia bella a
torturare la gente ad Auschwitz. Era l’uomo – umano, troppo umano (o troppo poco
umano) – che uccideva suo fratello. A ragione scrisse Ravasi nel 2006, dopo
la visita di Benedetto XVI ad Auschwitz e dopo il suo commosso discorso: «Prima
di mettere Dio sul banco degli imputati, bisogna ricordare che quell'orrore
nasce dalle mani dell'uomo, da quella libertà che è dono mirabile ma che può
essere un esplosivo dirompente. Dio ha preso sul serio questa qualità che ci ha
assegnato creandoci. Non la smentisce per comodità sua e nostra, non ci blocca
come un sasso a leggi obbligatorie e a meccanismi fissi quando traligniamo».
Dov’era Dio ad Auschwitz?
– Ci rispondono le opere eroiche
di persone come Massimiliano Kolbe. Ce lo dice la “resistenza” e l’opera di
Dietrich Bonhoeffer, il teologo che ha collaborato attivamente a un complotto per
il rovesciamento di Hilter e che è stato fucilato alla vigilia della fine della
guerra.
Ce lo dice Viktor Frankl con la
sua lotta per il senso e per dare senso agli altri e alla loro vita durante
quel non-senso creato dall’uomo. Ce lo dicono le mille storie di eroismo
scritte con la vita e non con le parole da persone che hanno ospitato famiglie
ebree a costo di venire denunciati, persone che hanno rifiutato di soccombere
alla “banalità del male” (cf. Hanna Arendt) e non hanno permesso ai
condizionamenti esteriori di offuscare le loro coscienze nel discernimento del
bene e del male.
Le persone che incarnano il bene
nel cuore della tempesta del male, queste sono la prova di Dio.
Due moribondi e un letto
singolo: Il cancro e Dio
Il cancro, mi dirà Lei professore,
è un male diverso. E ha ragione! Fino a un certo punto, però! Perché non sono
io a doverLe ricordare quanta responsabilità abbiamo noi nella tragica crescita
e diffusione del cancro. È il giocare sporco con la natura che ci fa rovesciare
addosso le sue reazioni, perché Dio – se esiste – perdona, la natura no!
Nondimeno non vorrei attribuire
tutta la responsabilità del male (ogni male) all’uomo. Il male naturale (detto
in gergo “male fisico” c’è). E non vorrei interpretarlo qui con dietrologie
archetipiche (peccato originale o altro). Vorrei prenderlo come dato di fatto.
Anche qui l’argomentazione
potrebbe diventare un libro, ma vorrei invitarLa, se mi permette, a riflettere
su una cosa sola, e per questo parto da un esempio: Se tutti fossimo ciechi,
nati tali, non ci sarebbe la sensazione che manchi qualcosa. La cecità sarebbe
la normalità. Sentiamo invece che la cecità sia un problema proprio perché
esiste l’occhio, la visione. Nella nostra esperienza del male, percepiamo una
mancanza, percepiamo un’imperfezione che porta in sé (e non solo come parola)
la “perfezione”. In questo senso si potrebbe dire che se non ci fosse il bene,
non ci sarebbe il male.
Tornando a noi: percepiamo il
peso del male nelle sue diverse forme perché c’è un bene, anzi un Optimum,
Sommum Bonum, che ci fa percepire la deficienza (nel senso
etimologico del termine) della situazione in cui versiamo. Se non ci fosse quel
bene, non sentiremmo quella mancanza. Fatto sta, però, che dentro di noi sussiste
un richiamo “naturale” a una pienezza che ci interpella continuamente, un
desiderio, un “cuore inquieto” che desidera il bene, il bello, il vero, nel
grado sommo e ogni realtà che va contro questo lo sentiamo come stonatura.
Se non ci fosse un’impronta del
Bene, il male non sarebbe male, sarebbe una parte della natura che segue le sue
leggi senza suscitare in noi alcuna reazione. Quello che dico, forse non è una
risposta, ma è sicuramente una domanda, un interrogativo che non permette una
facile risposta del tipo “il male (il cancro) c’è, allora Dio non esiste”,
perché si potrebbe affermare l’esatto opposto: «Quia malum, Deus est».
Alla fine di questa prima parte
della mia condivisione, mi piacerebbe lasciare la parola a un grande filosofo
del XX secolo, a un padre del personalismo, Emmanuel Mounier, il quale ha
vissuto il male sulla propria pelle, anzi, peggio, sulla pelle di una figlia (e
parlo da padre… è più atroce che sulla propria pelle!). La figlia Françoise, nata
nel 1938, in seguito ad una iniezione sbagliata, era entrata in coma due anni
dopo e non doveva più uscirne. Morirà dopo un lungo calvario nel 1954.
In una lettera alla moglie,
Paulette, che porta la data del 20 marzo 1940, Mounier scrive: «Che senso
avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un
po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera
tutti, un’immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo
faccia a faccia; se ogni colpo più duro non fosse una nuova elevazione che ogni
volta, allorché il nostro cuore comincia ad abituarsi al colpo prevedente, si
rivela come una nuova richiesta d’amore».
Non oso aggiungere altro… per
questo, sul secondo punto, scriverò domani.
Per ora La saluto con grande
stima
Robert Cheaib
Per la seconda parte clicca qui: Vivere come se Dio non esistesse, alla presenza di Dio