Caro
Professore,
Come
promesso, rieccomi a parlare del secondo punto, quello in cui ci regala
un’istantanea del suo mondo da medico, portandoci precisamente in sala
operatoria dove racconta dell’affidamento commovente che il paziente fa della
sua vita nelle sue mani. Al riguardo scrive: «E tu, chirurgo, non puoi
pensare che un angelo custode guidi la tua mano quando incidi e inizi
l’operazione, quando in pochi istanti devo decidere cosa fare, quando
asportare, come fermare un’emorragia».
Mi
permetta di dire con un sussulto: Grazie a Dio che non aspetta l’angelo
custode! Si immagini che ansia aspettarsi le istruzioni criptate di un
angelo per muoversi. Io neanche a tagliarmi le unghie faccio affidamento sul mio
angelo custode. Sono convinto che gli angeli non siano così pratici di
utensili. Poi immagino la difficile coordinazione tra ali e mani. Inoltre, dato
che non si prevede «né malattia né morte» in Cielo, credo che non abbiano
facoltà di medicina lassù. Per cui, da credente, le dico: si fidi, fa benissimo
a operare così e ha tutto il mio sostegno a non distrarsi con l’angelo custode
mentre opera.
Mi
scusi il momento di ironia, ma credo che renda l’idea molto meglio di tanti
concetti astratti (di cui forse ho abbondato nella prima parte della lettera.
Chiedo venia. Cercherò di essere più figurativo ed allusivo nella presente!).
Quello che vorrei dirle è che sotto i ferri, la mia fiducia la pongo nella sua
bravura, nella sua esperienza, nel suo “amore laico”.
Il
cosiddetto amore laico di cui parla – nella mia lettura di fede che non Le
impongo ma semplicemente condivido a titolo dialogale – viene dal riflesso
dell’Amore creatore di Dio che l’ha creata a sua immagine (dono) per realizzare
la sua somiglianza (compito). Essendo creati da Dio e a immagine di Dio, possiamo
dire che come esseri umani, partiamo già bene giacché niente è realmente
“disgraziato”. La grazia precede, perché tutto scaturisce dal grazioso amore di
Dio. Per cui è proprio la normalità che nella natura operi silentemente ma
fedelmente la grazia, a tal punto che a volte oso parlare di “grazia della
natura”!
Dell’utilità
dell’ateismo!!
Per
non sembrare di creare una risposta ad hoc, vorrei condividere con lei qualche
frammento di un libro su cui sto lavorando. Così magari ricambio il favore
dell’estratto del suo libro. Pensi che lo intitolo “Alla presenza di Dio”.
Nel secondo capitolo parlo dell’importanza della preghiera, di essere “presenti
al Presente”. Il Presente, naturalmente, si riferisce a Dio. Ora qualcuno
potrebbe pensare questo Presente come una grande distrazione dal
presente. Per questo, nel terzo capitolo dal quale prendo questi assaggi,
evidenzio come questa Presenza – lungi dall’essere una distrazione
dall’esistenza terrena, una deroga dalla responsabilità o un invito
all’“assenza” - è decisamente un invito a vivere presenti nel presente, in modo
attivo e responsabile.
Inizio
riportando un racconto chassidico, a dimostrazione che non solo i cristiani, ma
tutta la tradizione biblica è impostata sul non far del Cielo una licenza dalla
terra:
Si
racconta che Rabbi Moshe Leib disse una volta: «Non esiste qualità o forza
nell’uomo che sia stata creata inutilmente. E anche tutte le qualità basse o
malvagie possono essere sollevate al servizio di Dio. Così per esempio
l’orgoglio: quando viene elevato si muta in nobile coraggio nelle vie di Dio».
E alla domanda: «Ma a che sarà stato creato l’ateismo?», il Rabbi rispose così:
«Anch’esso ha la sua elevazione nell’atto di pietà. Poiché quando uno viene da
te e ti chiede aiuto, allora tu non devi piamente raccomandargli abbi fiducia e
rivolgi la tua pena a Dio, ma devi agire come se non ci fosse Dio, come se in tutto
il mondo ci fosse uno solo che può aiutare quell’uomo, tu solo».
Questo
racconto ci mette dinanzi a un fatto cruciale per la fede: la necessità di rimanere
«fedeli alla terra» (Sì, uso in maniera consapevole un’espressione di Nietzsche!).
La fede vera non vive nell’illusione di un regno dei cieli di domani
trascurando il Regno già presente in mezzo a noi e vivibile oggi (cf. Lc 17,21).
La fede vive l’esortazione del salmista: «abita la terra e vivi con fede». Vive
la terra, ma con il Cielo nel cuore. Ama il Cielo, ma con la terra nel cuore.
Questa tensione non la possiamo tralasciare, proprio per amore del Verbo fattosi
carne. È l’inscindibile coordinazione cattolica tra grazia e opere.
Con
l’incarnazione, Dio ha assunto la storia, il corpo e il tempo mostrandoci
chiaramente che non si può essere realmente di Dio senza passare per il tempo,
il corpo e la storia. Non esagero nel dire che una spiritualità disincarnata è
una spiritualità dell’anti-Cristo perché non riconosce e non confessa Gesù
Cristo venuto nella carne (cf. 2Gv 7).
[…]
Alla
scuola di fede realista di Dietrich Bonhoeffer, quella scuola che si sviluppa
all’ombra del male totalitario anti-teista, abbiamo delle pagine preziose su
come bisogna evitare l’ab-uso di Dio, o dell’ipotesi di Dio, come un
tappabuchi. «Non dobbiamo attribuire a Dio il ruolo di tappabuchi nei confronti
dell’incompletezza delle nostre conoscenze. […] Dobbiamo trovare Dio in ciò che
conosciamo; Dio vuole essere compreso da noi non nelle questioni irrisolte, ma
in quelle risolte». Così anche non dobbiamo attribuirgli il ruolo della
prolunga delle nostre mani, lo stucco per le crepe dell’edificio della nostra
natura, ecc.
La
grazia di Dio non opera malgrado noi, la grazia opera in noi. Si tratta di sinergia
(dal greco συν-εργός, che significa “operare insieme”), di co-operazione: Dio
opera e l’uomo opera. Siamo «collaboratori di Dio», ci dice san Paolo (1Cor
3,9). Già Tommaso d’Aquino affermava che
la grazia non sostituisce la natura, ma la presuppone e la perfeziona.
[…]
Il
cristiano vero è il mistico attivo, che vive «la mistica degli occhi aperti» come la mette Johann Baptist Metz. È un “contemplattivo”,
come la conia genialmente don Tonino Bello. Vive unito a Dio, ma non
per questo distaccato dal mondo, anzi proprio nell’unione con Dio si trova nel “cuore
del mondo” (von Balthasar), vicino ad ogni realtà e ogni persona. La presenza
di Dio non diventa un intralcio e neppure uno strumento, ma piuttosto “sale” che
dà sapere e “luce” gentile che illumina delicatamente ogni situazione. Così
possiamo capire l’appello a un cristianesimo adulto di Bonhoeffer: «non
possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo – “etsi
deus non daretur”. E appunto questo riconosciamo – davanti a Dio!». È la grande e carismatica tensione di avere il cuore talmente
impregnati di Dio da non doverselo ri-cordare (riportare al cuore) di continuo.
Questo
lungo estratto ci conduce alla conclusione, direi “cattolica”, di Bonhoeffer: «Io
vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma
nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e
nel bene dell’uomo».
Insomma,
dov’è Dio nel dolore?
Chiudo
riprendendo la questione di Dio ad Auschwitz, ricordando Elie Wiesel che,
prigioniero, sentiva i compagni chiedersi: «Dov'è il buon Dio? Dov'è?». Wiesel
confessa: «Io sentivo in me una voce che rispondeva: "Dov'è? Eccolo: è
appeso lì, a quella forca!"». A queste parole il cardinale Gianfranco
Ravasi aggiungeva: «Paradossalmente quella dello scrittore ebreo è la risposta
cristiana che sulla forca vede Cristo, il Figlio stesso di Dio che, rompendo
l'isolamento perfetto della sua trascendenza, non è solo accanto alle vittime
come un consolatore magnanimo, ma è lui stesso vittima e impiccato».
In
Cristo, Dio non ha dato una risposta teorica al dolore, Dio si è fatto presenza
nel dolore del mondo. A ragione scrive Paul Claudel: «Dio non è venuto a
sopprimere il dolore. Non è venuto neppure a spiegarlo. È venuto a colmarlo
della sua presenza».
Forse
come medico, invece di negare Dio, può imitare Cristo, riempire il dolore con
una presenza, la Presenza.
Suo
in Cristo,
Per approfondire:
Un sopravvissuto di Auschwitz ci insegna come affrontare il dolore: (audio) - (testo)
La prima parte della lettera si trova qui: Quando Dio muore di cancro
La prima parte della lettera si trova qui: Quando Dio muore di cancro