Questa domanda
mi è stata fatta in varie sfumature e da più di una persona, spesso in seguito
a conversazioni riguardo a libri spirituali belli. La situazione tipo è questa:
si prende in mano un bel libro spirituale, lo si divora in un giorno (o in una
notte), il libro lascia una gran bella sensazione, una carica di entusiasmo e di
buoni propositi… ma questo effetto non tarda a diminuire e prima o poi ci si
ritrova con la situazione di prima.
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Siamo generalmente
abituati a ricevere un bombardamento di testi da leggere a causa dei social
media, delle email, ecc. Questo nuovo stile di vita ci obbliga alla lettura
veloce e a non sostare su quanto leggiamo. Anzi, per esigenze professionali, hanno
tanto successo le tecniche di fast reading (lettura veloce). Non le
critico, anzi, in qualche modo ne faccio uso dato il mio lavoro che richiede
tanta lettura.
C’è comunque un
grande “però”. Ci sono certi scritti che non sono fatti per la lettura
veloce. In questo genere di scritti rientrano i libri spirituali. La finalità
principale di queste opere è il nutrimento della vita spirituale. Per questo –
seppure possano contenere elementi in-formativi – la loro intenzione
principale è tras-formativa. In parole semplici: questi libri sono
scritti non per cambiarti la testa, ma per cambiarti il cuore e la vita intera.
La domanda che
si pone allora riguarda il buon uso della lettura spirituale. E vorrei
suddividere la risposta al volo in tre parti.
Al passo con il nostro Desiderio
Non posso che
partire dal principio ignaziano che afferma che «non è il molto sapere che
sazia e soddisfa l'anima ma il sentire e gustare le cose interiormente».
Cosa capita
quando leggiamo un libro spirituale? Henri Bergson ci dice che quando leggiamo
i grandi mistici o i santi e ci sentiamo trasportati, è indizio che dentro di
noi c’è un mistico che vuole venire alla luce. L’inganno, però, è che questa
spinta la accarezziamo en passant, senza soffermarci lì per farci
trascinare come la sposa del Cantico: «attirami dietro a te, corriamo». Non lasciando
che il desiderio faccia il suo lavoro concreto (che è fondamentalmente quello
di muovere la volontà all’azione pratica e contestualizzata), lo
rendiamo un wishful thinking, un «pio desiderio» sdolcinato e inefficace.
Per questo il
consiglio di Ignazio di Loyola, che si applica sia alla preghiera sia alla
lettura spirituale, è di fondamentale importanza. È un momento di sincronizzazione
personale dove il lettore che legge e impara sincronizza se stesso con i propri
desideri suscitati dalla lettura e contemporaneamente con l’attualità della
propria vita. È una triplice sincronizzazione tra mentre, affetti e volontà.
Questi tre portano a una prassi spirituale sostenuta e sostenibile.
Giovanni della
Croce parla dell’ingordigia spirituale. L’avidità di racimolare
contenuti spirituali senza digerirli è uno degli aspetti di questo vizio di gola
spirituale. È un eccesso di “calorie” che non viene canalizzato nella vita
concreta e che piuttosto che renderci più calorosi e zelanti, ci porta all’abbiocco
spirituale e a una specie di noia tipica di chi confonde la vita spirituale con
il tenersi informato sulle cose spirituali.
Qui vale l’affermazione
di Rabelais: «scienza senza coscienza è una rovina dell’anima».
La lettura come specchio
La seconda
immagine che mi piace evocare è quella dello specchio. Un testo
spirituale degno del nome non mi rivela solo qualcosa che non so, ma mi rivela qualcosa
di chi sono, parla della mia vita e della mia verità. Si propone come specchio
profetico – quasi come la parabola del profeta Natan al re Davide (cf. 2Sam 12)
– per aiutarmi a identificare la mia situazione vitale e a scoprire dove sono arrivato
nel cammino della mia vita.
Il testo che
ospito nella mia mente e nel mio tempo, mi ospita in qualche modo (mi deve
ospitare, altrimenti non è un testo per me, almeno non per una mia lettura
spirituale di adesso). Così interpreto il testo perché mi interpreta e ci
sveliamo a vicenda.
A questo
riguardo, Paul Ricoeur ci invita a fare una riflessione molto interessante.
Egli prende le distanze dalla tradizione del Cogito di Descartes secondo
la quale noi conosciamo noi stessi attraverso un’intuizione immediata.
Teoricamente è così, concretamente no. Noi conosciamo noi stessi nel confronto,
nel dialogo e non nel monologo. Nelle parole di Ricoeur: «Noi non ci
comprendiamo che attraverso i segni di umanità depositati nelle opere di
cultura… Comprendere, pertanto, è comprendersi di fronte a un testo». Il
testo diventa uno specchio rivelante di chi legge.
L’incontro con
il testo non rimane allora un momento in cui io, come soggetto, guardo un
oggetto, ma diventa un evento intersoggettivo. Non solo scruto il testo, ma mi
lascio scrutare e interpellare dalla sua alterità. È un momento di «addomesticamento»
che è un processo che richiede tempo, pazienza, sedimentazione e tanta amicizia
(la volpe del Piccolo principe docet).
Il libro e il Volto
La svolta reale
della lettura spirituale è quando l’incontro con l’alterità diventa incontro
con l’Altro, incontro con il Volto di Dio, quando mi fermo dal voltare le
pagine perché ho incrociato il Volto. Nella lettura spirituale dobbiamo essere
coscienti che cerchiamo l’Amato e quando percepiamo un momento di presenza
dobbiamo fermarci, chiudere il libro e aprire il cuore in preghiera.
Un autore spirituale
del Seicento, Alfonso Rodriguez, offre un’immagine simpatica, quella dei
passeri che si abbeverano. Proprio come quando il passero si riempie la bocca e
poi alza la testa per mandare giù ciò che ha bevuto, così l’anima deve
abbeverarsi ai testi spirituali, e quando ha quello che le basta, deve elevare
l’anima in preghiera.
Robert Cheaib
Puoi anche ascoltare una registrazione che tratta dello stesso argomento da un'altra prospettiva su questo link