Teologia del Triduo
Pasquale secondo H.U von Balthasar
In un saggio del 1969, parso
per la prima volta nell’autorevole dogmatica cattolica «Mysterium Salutis»,
Hans Urs von Balthasar – «l’uomo più colto del XX secolo», come l’ha definito
Henri de Lubac – affronta le questioni spinose annesse al triduo pasquale che
non si riassume, a rigor di termini, soltanto nella morte e risurrezione di
Cristo, ma che include quel «silenzio» scomodo del sabato santo. Seppure siano
passati un po’ di decenni, il libro è un classico che mantiene una grande
attualità e costituisce un ottimo compagno di meditazione e riflessione per la
settimana santa. È lodevole, pertanto, l’iniziativa dell’Editrice Queriniana
che ne offre una nuova edizione per accompagnare i nostri passi verso la gioia
pasquale.
Se una porzione importante
della teologia di Balthasar «è – come egli stesso confessa –una traduzione di
ciò che è presente in modo più immediato, meno “tecnico”, nella possente opera
di Adrienne von Speyr», la Teologia dei tre giorni è essenzialmente una
trascrizione teologica di quanto appreso direttamente dalle esperienze mistiche
della von Speyr. Secondo Giuseppe Ruggieri la Teologia dei tre giorni rappresenta
«il centro della produzione balthasariana, l’opera in cui sono raccolti i
motivi più originali e pregnanti al tempo stesso del teologo svizzero».
Il saggio balthasariano,
costellato da un intreccio prezioso di esegesi, teologia patristica, medievale
e moderna, è un impegno felice volto a radicare gli eventi centrali della
cristologia nel cuore della Trinità. Il nodo centrale della riflessione del libro
è quello di vedere nella morte di Cristo non solo l’esperienza del morire (il
venerdì santo), ma quella dell’esperienza effettiva di morte, quale stato di
solidarietà con i morti dello sheol (sabato santo).
Balthasar apre la sua
riflessione constatando l’intenzionalità precisa e costante che accompagna il
mistero dell’incarnazione: l’incarnazione di Cristo è ordinata alla sua
passione. Già la kenosi che rende possibile l’incarnazione è in se stessa una
‘passione’. Nella kenosi, Dio si mostra tanto divinamente libero da potersi
legare all’obbedienza di servo. L’incarnazione esprime l’umiltà dell’amore di
Dio che salva l’uomo assumendo la sua natura, vivendo la sua vita e morendo la
sua morte. Le testimonianze neotestamentarie riguardo a tale intenzionalità
sono abbondanti. Ne abbiamo traccia persistente nel pensiero di Paolo che non
vuole conoscere altro che la croce di Cristo (cf. 1Cor 1,12) e che non si
gloria se non nella croce (cf. Gal 6,14). L’apostolo riassume la sua missione
come annuncio della riconciliazione di Dio con il mondo nella croce di Cristo
(2Cor 5,18). I vangeli, a loro volta, testimoniano la determinazione di Gesù di
«bere il calice» e di «ricevere il [secondo] battesimo» (cf. Mc 10,38).
Riflettendo sulla kenosi
dell’incarnazione, Balthasar argomenta che l’esternarsi di Dio
nell’incarnazione abbia la sua «possibilità ontologica nell’esternabilità
eterna di Dio, nella sua donazione tripersonale». La kenosi è nel cuore della
Trinità e trova il suo presupposto nell’«altruismo» delle ipostasi trinitarie.
Questa «kenosi fondamentale» è presente già nella creazione «perché Dio fin
dall’eternità assume la responsabilità della sua riuscita (tenendo conto anche
della libertà dell’uomo)». In questo senso, Balthasar condivide l’affermazione
del teologo ortodosso Sergej Bulgakov che afferma: «La croce di Cristo è iscritta
nella creazione del mondo fin dalle sue origini».
La croce è quindi «la
manifestazione di un mistero della vita divina stessa». Tale riflessione
balthasariana fa cadere a prezzi la vecchia concezione dell’immutabilità di Dio
e della pura e fredda apátheia divina. Egli invita a considerare seriamente
le conseguenze teologiche del fatto che nel Figlio, Dio entra realmente nella
sofferenza e proprio allora è e rimane realmente Dio.
Il teologo di Basilea ci
accompagna in un gesto contemplativo – che non manca minimamente di spessore
teologico – e che poggia la testa sul cuore del Cristo mentre attraversa gli
eventi ed i gesti del mistero pasquale. Il venerdì santo è contrassegnato dal
concetto fondamentale di «consegna» (tradere – paradidonai), dove
il Figlio è consegnato – nel passivo divino – per amore e per la salvezza del
mondo, e il Figlio si consegna liberamente rimanendo veramente colui che agisce
e che realizza la parádosis, fino all’ultima consegna dell’uomo-Gesù:
«Padre nelle tue mani consegno il mio spirito». Appare così come «le consegne» del
traditore Giuda, dei giudei, dei romani, di Pilato, di Erode… sono «terze»
rispetto alla consegna che il Padre e il Figlio effettuano.
La riflessione sul sabato
santo è quella più distintiva del contributo balthasariano. Il teologo – contro
ogni semi-docetismo – si sofferma sulla realtà della morte di Cristo. La morte
comporta che egli, come noi figli di Adamo, «non impieghi (come spesso è dato
di leggere nei libri di teologia) il ‘breve’ tempo del suo stato di morte in
ogni sorta di ‘attività’ nell’al di là. […]. Come nella vita egli fu solidale
con i viventi, altrettanto lo fu nel sepolcro con i morti». Balthasar prende
sul serio la morte del Cristo, quella morte di cui fa cenno con parole
inequivocabili l’Apocalisse: «Io ero morto (nekrós), ma ecco ora vivo
per i secoli dei secoli ed ho le chiavi della morte e del mondo sotterraneo»
(Ap 1,18). Con la sua morte, Cristo ha fatto seriamente parte dei refa’im,
i «senza forza»; egli prese su di se l’esperienza della poena damni dei
figli di Adamo peccatori, sostituendosi ad essi. La sua solidarietà non si è
limitata al consentire a morire, ma a vivere la realtà del morto. Balthasar
spinge la riflessione fino alle estreme conseguenze: dato che la compassione
di Cristo per i peccatori fu infinitamente più grande della sua passione fisica
(Bonaventura), la sua sofferenza «era come quella dei dannati… egli arrivò alla
pena dell’inferno» (Niccolò Cusano). La riflessione di Balthasar si fa sottile
e traduce con il suo coraggio i salti della mistica della von Speyr, ma la
possiamo riassumere con un passo di San Gregorio Magno che dice: «Cristo è
disceso fino alle ultime profondità del mare, quando scese all’inferno più
profondo, per liberare da esso le anime dei suoi eletti. Prima della redenzione
la profondità del mare non era una via, ma un carcere… ma Dio ha fatto di
questo abisso una via…».
Solo giungendo alla
profondità di questo abisso; solo in questa solidarietà nella morte, Cristo, il
«secondo Adamo» diventa «spirito datore di vita» (1Cor 15,45). La sua figura
sfigurata è già rivelazione anticipata della gloria e della signoria del Padre.
Nella kenosi fino alla morte in croce, Cristo riprende trionfante il cammino
verso il Padre portando dagli abissi ogni uomo, perché ormai non esiste un
abisso dove un uomo possa cadere senza trovare già il Cristo che è sceso –
obbediente – prima di lui per raccoglierlo.