Che cosa possiamo dire di Dio oggi?
In questa nuova opera, il professore di Münster, già autore
di un apprezzato saggio di teologia fondamentale - «Essere responsabili
della fede» - si mostra, non solo responsabile, ma anche acuto e sensibile
verso la delicatezza della domanda su Dio e, al contempo, attento ed empatico
verso l’uomo che ascolta e si lascia interrogare da Dio.
Se la teologia quale discorso su Dio vuole essere
interessante per l’uomo, non può che a sua volta interessarsi del destino
umano, delle sue domande e delle sue esperienze; non può che mostrare come l’esperienza
della realtà di Dio sia così co-essenziale e congeniale al vissuto dell’uomo in
tutte le sue sfaccettature. Per questo motivo, nell’introdurre il suo saggio,
Werbick contesta l’autoreferenzialità della teologia che, non di rado, merita
l’ironia retorica di Nietzsche: «Ma chi si preoccupa ancora oggi dei teologi,
eccetto che i teologi?». Dinanzi al rischio dell’insignificanza, l’autore
richiama la teologia al suo «compito autentico, ai problemi dell’uomo, ai
bisogni religiosi che sempre lo incalzano, alle questioni di valore in cui
dalla scienza e dalla politica è lasciato solo».
Il primo degli otto capitolo che costituiscono
l’opera si sofferma, con un afflato sapienziale, sul nome di Dio. Werbick
prende sul serio la problematica di dare un nome a Dio, con tutto quello che
comporta il nominare, soprattutto presso la sensibilità biblica. L’autore
richiama allo stupore che deve accompagnare ogni sfaccendare con Dio. Di
Dio – come già notava il filosofo francese Maurice Blondel – non si può parlare
in terza persona. A tal riguardo, il teologo tedesco afferma: «Parlare di Dio
come di una terza persona, come se noi potessi farne un tema uguale agli altri,
da affrontare per essere sufficientemente informati e per essere in grado di
decidere, questo è qualcosa che evidentemente è ancora meno conveniente a Dio
di quanto non lo sia all’uomo». Di Dio, bisogna piuttosto parlare come di Colui
che ci riguarda in modo incondizionato, come di Colui che ci afferra. È
significativo che la parola pronunciata dagli ebrei quando leggono il
Tetragramma (JHWH) è Adonai che letteralmente significa mio
Signore: una confessione di appartenenza. Il teologo richiama pertanto a
una concomitanza tra dossologia e concetto nel parlare di Dio e nel fare
teologia, e appella all’urgenza di sostenere «il linguaggio della sorpresa».
Il secondo capitolo si sofferma sull’affermazione di
Dio al cospetto della ragione. Esso cerca un punto di congiunzione tra il
linguaggio del credente che è afferrato e quello di chi conosce, di chi cerca
intelligibilità e motivi per credere. In questo quadro, Werbick ripercorre le
cosiddette «prove dell’esistenza di Dio» e la prova ontologica di sant’Anselmo
di Canterbury alla luce dei guadagni scientifici e filosofici degli ultimi
secoli. L’intenzionalità del secondo capitolo è guidata dalla convinzione che
la fede è ragionevole e, come tale, opera un’adaequatio tra il reale e
la ragione basandosi sull’affidabilità di Dio quale «fondamento infondato» e
«Dono sorprendente» che risveglia nell’uomo il senso del «più che concettuale»
e «più che razionale».
Questi due capitoli offrono la griglia sapienziale e
razionale per il discorso successivo sui diversi attributi di Dio che il
teologo considera con tutta la problematicità che comportano. La sua considerazione
si invera come una dottrina di Dio che dialoga contemporaneamente con la
teologia sistematica, la teologia fondamentale, la filosofia (metafisica e
filosofia della religione) e i dati delle scienze. Il viaggio tra gli attributi
di Dio sviluppato ampiamente nei successivi cinque capitoli è riassunto dallo
stesso Werbick così: Dio «è il dono incomprensibile ricco e in tal modo l’Uno
del quale e accanto al quale non esiste niente di più grane e a cui nulla può
essere comparato (capitolo 3); ciò che abbraccia tutto e al tempo stesso è
presenza concreta nella donazione di sé (capitolo 4), l’Onnipotente
che, per amore degli uomini e della loro perfezione nella libertà, li chiama
alla corresponsabilità affinché gli idoli e le poteze in questo mondo perdano
il loro potere (capitolo 5); il Dio della libertà, che ha potenza e che
perciò è oggetto di preghiera affinché manifesti la sua bontà e retta volontà,
come in cielo così, finalmente, anche in terra (capitolo 6). Egli è il Dio
unitrino che si lascia riconoscere e si comunica perché si ‘espone’ come ciò
che è immemorialmente privo di origine e come il futuro insuperabile nella
storia degli uomini, affinché quelli che credono in lui trovino accesso nelle
sue tracce, mediante lo Spirito Santo, al futuro di Dio (capitolo 7)».
Il libro si estende per ben 718 pagine di lotta, dialogo con
il Dio che si fa vicino all’uomo, lo visita nella sua individualità, lo
stravolge e lo coinvolge nella propria vita di amore trinitario. L’estensione
del libro non contraddice ma invera la necessità di concentrare il discorso su
Dio. Attraversare le diverse sfumature dell’esperienza di riflessione e di vita
è condizione necessaria di una significativa concentrazione. Osserva l’autore
nel capitolo conclusivo: «Chi volesse avere anticipatamente a disposizione il
‘concentrato’, non farebbe le esperienze che richiedono concentrazione e non
avrebbe alcun presagio di ciò che va ‘raccolto’ in una densa concentrazione».
La semplice verità del «Dio agápe» è scoperta realmente quando l’uomo
si lascia coinvolgere in uno «stile di vita agapico» e in un cammino che
incarna e si lascia trasformare da questa verità semplice. Così il percorso di
questo libro non si lascia riassumere in una breve recensione, ma richiama a
una reiterazione viva, vitale e vivificante della fatica del concetto e della
serietà dell’esperienza che le sue pagine raccolgono, affinché il concetto maturi
in una concezione e l’idea si trasformi in un incontro con il «Dio
coinvolgente».
Photo: Some rights reserved by Rob Ellis'
Robert Cheaib
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