La delusione del Qohelet come attesa di Cristo
L’effetto non viene attenuato dal fatto di essere parte del canone biblico.
Anzi, lo scandalo di quel libro che non ha peli sulla lingua si acuisce con
l’idea che nel leggerlo dobbiamo dire e dirci: «è parola di Dio».
Il libro del Qohelet non è uno scritto di pietà con istruzioni per
l’uso, ma un libro sapienziale dal grave e profondo respiro. Il suo aroma vero
non si rivela a primo acchito, ma soltanto spezzando la crosta dura delle righe
e delle espressioni ferendo la parola e lasciandosi ferire da essa.
Nel volume - Qohelet. Il libro più scandaloso e originale dell'Antico Testamneto - che ripropone al grande pubblico il prezioso libro del 1988 di
Gianfranco Ravasi (Cardinale), ci confrontiamo con stile dotto ma delizioso con
l’enigma del «libro più originale e “scandaloso” dell’Antico Testamento», partendo
dal mistero del suo autore nonché l’enigma del messaggio finale.
Il volume pubblicato da San Paolo Edizioni propone un’interessante introduzione
al mondo del Qohelet seguito da una traduzione e da un commento del
testo. Come i vari libri di Ravasi, il commento rientra in quella via media che
non rinuncia al rigore scientifico ed esegetico a favore della divulgazione, e
non tradisce la bellezza dello stile e il fascino della presentazione a favore
di una pretesa scientificità.
Un autore poco «ecclesiastico»
Già il nome dell’autore del libro è un enigma. Il suo nome viene dalla
radice ebraica qhl che significa radunare, convocare l’assemblea. Per
questo le traduzioni greco-latine si sono orientate verso il nome
«Ecclesiaste», colui che raduna la qahal. Un nome al quanto insolito e inconseguente
con il carattere dell’autore che traspare dallo scritto, un autore che trapela
«un evidente fastidio per le grandi masse, abituate agli stereotipi
sapienziali».
Oltre alla sua formazione, il contenuto del libro è un enigma
interpretativo. Ravasi mostra la svariata e a volte contraddittoria gamma di
interpretazioni del messaggio centrale del libro. Da chi vede nel Qohelet
il paradigma dello scettico (R. Murphy), del contestatore (A. Maillot), del
disperato cinico (J.T. Walsh), passando per chi legge nel libro un invito di
rassegnarsi alla insostenibile mediocrità dell’esistenza vanificata dalla morte
la quale disorienta ogni equilibrio retributivo (D. Buzy), fino
all’interpretazione «sconcertante» di chi vede in esso «un predicatore della
gioia» (R. N. Whybray)
Un libro postmoderno
Se il libro della Sapienza con il suo ottimismo antropologico può avvicinarsi
alla sensibilità dell'uomo moderno, il Qohelet si configura come libro
decisamente postmoderno, deluso e diffidente verso i metaracconti del progresso
e del senso che guarda la realtà con uno sguardo crudele e quasi
autolesionista.
Il tono del libro è lento, distaccato, disilluso nonostante la tensione
sotterranea che le sue proposte e le sue riflessioni nascondono. Con cinismo,
il Qohelet, con il suo «niente di nuovo sotto il sole», sembra dirci –
con Oscar Wilde - «ciò che il futuro ci riserva è il nostro passato».
Dal punto di vista di una teologia della storia, il Qohelet è
l’unico autore biblico che abbandona la visione scritturistica della storia
intesa come un progetto divino in progressivo sviluppo lineare e messianico.
… eppure
Il Qohelet non si sofferma sul «problema» Dio in quanto tale, non
disturba le orbite celesti se non in quella parte che interferisce con il
problema dell’uomo.
Eppure, il libro fa parte del Canone a testimonianza che il terreno degli
interrogativi umani, anche quelli amari che non hanno la risposta alla portata
di mano, come quello della sofferenza del giusto, sono spazi che – seppure sembrino
sussurrare un’amara assenza di Dio e un assordante vuoto – possono in realtà
«essere misteriosamente fecondati da Dio».
Ravasi ci ricorda che «la parola “ispirata” di Qohelet è anche da
interpretare alla luce della progressività pedagogica della stessa rivelazione
divina che, pur avendo una logica di fondo lineare, conosce tappe lente di
attuazione, vive in attesa, si sonda lungo soste e percorsi tortuosi. In questo
senso si può dire che per il cristiano la parola di Qohelet è come un
indice puntato verso la pienezza di Cristo in cui la tensione della ricerca e
dell’autore antico testamentario troverà una risposta conclusiva e non evasiva.
Dio, infatti, non resterà più nei suoi cieli né parlerà con la mediazione dei
segni ambigui ma “si farà voce umana, limite, povertà, fragilità, domanda,
ansia, interrogativo a Dio stesso nel Figlio vero uomo” (N. Berdjaev)».
Il Nuovo Testamento apre i sensi delusi del Qohelet – «vanità di vanità,
tutto è vanità», «niente di nuovo sotto il sole» – alla novità del senso di
colui che ha fatto nuove tutte le cose.
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