Stili e criteri per il rinnovamento della teologia
fondamentale
di Robert Cheaib
Nel suo
capolavoro «L’Action», Maurice Blondel mette in discussione la
classica concezione della verità come adaequatio intellectus ad rem.
Tale concetto non è errato, ma è limitato. Esso si riferisce alla verità
astratta, concettuale, al modo evidente con cui conosciamo le cose.
Quando si tratta, invece, della verità vitale, essa
non si raggiunge con una semplice adeguazione intellettuale, ma con una maieutica
e una conversione dell’essere nella verità colta e ac-colta. Da qui il grande
filosofo francese parla di Adaequatio vitae et cognitionis. Si configura
così un volto più esistenziale della verità che coinvolge l’essere, il fare, il
vivere… La verità non si coglie ma si invera, diventa la verità di
un’esistenza, di un’irradiazione e di una testimonianza. Da qui si capisce
anche la pregnanza delle espressioni giovannee: «fare la verità», «essere nella
verità», «dimorare nella verità».
Questa concezione vitale della verità obbliga a una
riconsiderazione del modo di fare teologia. Non si può esiliare la vita e
pretendere di continuare a parlare di una verità vitale qual è la fede! Da qui
l’importanza del coraggioso contributo di Federico Grosso nel saggio Teologiae biografia: un dialogo aperto. Stili e criteri per una proposta teologicaesistentivo-testimoniale, pubblicato presso le Edizioni Messaggero
Padova con il patrocinio della Facoltà Teologica del Triveneto.
Al di là del divorzio tra vita e pensiero
Frutto di una tesi difesa presso la Pontificia
Università Gregoriana sotto la guida di Elmar Salmann che ne stila la
Prefazione, il saggio tocca un punto dolente della teologia degli ultimi secoli
quello della separazione tra teologia e santità (H. U. von Balthasar), tra intellectus
fidei e confessio fidei (M. Seckler, P. Martinelli), tra fides quae
e fides qua. Per rimediare a questo infelice divorzio, l’autore esplora
il panorama spesso trascurato tra biografia e teologia, riflessione ed esperienza,
testimonianza profetica individuale e vita della/nella polis. Questa
esplorazione non avviene in chiave teoretica che rischia di ricadere
nell’astrattismo da cui si tenta di sfuggire, ma guarda a otto mito-biografie
concrete che offrono un orizzonte libero e liberante, ispirato e ispirante, un
nuovo stile e una rinnovata comprensione della teologia fondamentale.
Gli otto personaggi scolpiti nei quattro «medaglioni»
sono Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti (visti come inveramento dello stile
cristiano nell’impegno politico); Giuseppe De Luca ed Ernesto Balducci (che
figurano come narrazione dello stile cristiano nell’impegno culturale); Primo
Mazzolari e Lorenzo Milano (che permettono un profilarsi dello stile cristiano
nell’impegno pastorale); e Francesco Placereani e Antonio Bellina (che
delineano uno stile particolareggiato di stile cristiano della presenza nella
realtà locale friulano, quella dell’autore del saggio).
Gli «attori» di questi medaglioni non sono considerati
da una prospettiva storiografica ma sono visti e rivisitati come modelli
sperimentali di una teologia inverata biograficamente. Questi inveramenti
biografici si offrono come un nuovo modello di oggettività – o meglio di
trans-soggettività – fondata non sull’astrattezza del universalismo concettuale
ma su un «realismo totale» in cui l’intreccio fecondo tra vita, storia,
realizzazioni si traduce in uno sguardo interpretativo della di per sé oscura
realtà dell’esistere umano.
Lenti ermeneutiche
La riflessione e l’analisi avviene con l’aiuto di alcune
«lenti» teologiche che offrono una chiave ermeneutica e prospettica allo
sguardo coraggioso sulla biografia.
La prima lente è offerta da Johann Baptist Metz il
quale denuncia la scissione tra «biografia mistica» e «dosso grafia della fede»
che ha reso la scienza teologica «una dottrina atrofizzata nell’oggettivismo».
Il discepolo di Rahner invita a una risintonizzazione delle due affluenti per
elaborare «una teologia del vissuto storico» che eleva il soggetto alla
coscienza dogmatica e rinvigorisce il dogma con la concretezza e la
palpitazione della vita.
La seconda lente è offerta da Jürgen Moltmann che
focalizza la centralità della dimensione vitale nel processo del teologare,
giacché «uno diventa teologo vivendo, anzi morendo e finendo dannato; non
conoscendo, leggendo o speculando». La teologia sistematica si configura come
uno strumento di auto comprensione, approfondimento ed espressione del vissuto
teologale.
La terza lente è offerta da Andrés Torres Queiruga che
mette in risalto come la plausibilità di Dio dal punto di vista antropologico
si fondi sulla capacità o meno dell’ipotesi di Dio di chiarire la situazione
vitale dell’uomo. La rivelazione porta l’uomo nelle profondità insondabili di
se stesso e nel contempo ben al di là di se stesso. La storia personale, da
vaga utopia diventa un potenziale terra promessa kairologica per un incontro
possibile e contemporaneo con il Risorto. L’esistenza personale diventa, in
altri termini, un luogo di rivelazione e incontro con il Dio che nella storia
si è dato una volta per tutte a tutta la storia e a tutti gli uomini.
La quarta lente è costituita dalle prospettive di Elmar
Salmann e di Christoph Theobald che propongono, con sfumature diverse, di
vedere il cristianesimo come una proposta di stile di abitare il mondo.
L’approccio stilistico si pone naturalmente come ponte tra il dato
antropologico e quello teologico, come un connubio fecondo tra la pesanteur
et la grâce.
Con l’aiuto di queste lenti, l’autore tenta una
riflessione a partire dalla lettura dei medaglioni biografici. Confrontandosi
con la gestualità degli «attori» ben conosciuti al panorama sociale ed ecclesiale
italiano, con le loro contraddizioni e le loro visioni teologiche che
«avvicinano il cristianesimo dai margini, dalle sue regioni periferiche»,
Federico Grosso si avventura verso
quella «Galilea delle genti», ovvero il territorio abitato dagli uomini e dalle
donne di oggi spesso disaffezionati al sacro, emotivamente distanti dal
cristianesimo e ideologicamente estranei al suo linguaggio e alla sua
ermeneutica globale.
Al bivio tra teologia fondamentale e teologia
pastorale
Non è superfluo sottolineare che l’autore è al
contempo docente di teologia e pastore d’anime. La sua pastorale offre alla sua
teologia fondamentale il senso della concretezza, l’urgenza dei problemi e il pathos
della responsabilità verso la storia e verso il cammino concreto dell’uomo. E
la sua teologia e l’amore per la cultura plasmano e sublimano la proposta
pastorale in dialogo con le istanze e le sfide del caso serio della fede. Il
risultato è un’eloquente e rara sintesi tra teologia sistematica e
configurazione esistenziale.
L’approccio di Federico Grosso esprime la gestualità
tipica di una teologia fondamentale chiamata – quale «disciplina di frontiera»
e di dialogo – ad essere «estroflessa», a raccontarsi con le parole dell’altro,
spesso lontano e pregiudiziale, per mostrargli quanto può essere vicino e
compagno di cammino.
L’interesse dell’opera risiede non tanto nel collocare
in sequenza la vita e la riflessione degli autori, ma di scorgere nella stessa
densità esistentivo-testimoniale la carica teologica degli autori. L’approccio
teologico del saggio, infatti, non verte sull’argomentazione costringente ma
sulla manifestazione invitante. L’autore preferisce porsi nella prospettiva
della «verità romanzesca» evocata dall’antropologo René Girard e dal romanziere
Milan Kundera. Siamo dinanzi al criterio veritativo che emerge non dal
concatenamento sillogistico dei ragionamenti astratti ma dal «libero,
simultaneo, sorprendente e provvidenziale intrecciarsi e illuminarsi vicendevole
delle vite e delle relazioni personali».
La molteplicità degli autori – che può a primo acchito
sorprendere in un lavoro di dottorato – mira proprio a esporre diversi fili
fragili (e quale biografia cosciente di sé non si concepisce come affermazione
assolutamente necessaria e tremendamente relativa?) che si intrecciano per far
intuire e percepire – e quindi, «balthasariamente» cogliere la verità
(dal tedesco Wahr-nehmung) – della «memoria pericolosa» (Metz) di
Gesù, e ispirare un intreccio di pennellate che delineano i contorni della Gestalt
cristiana come presenza, rappresentazione e ripresentazione dell’evento unico
dell’autodonazione di Dio nella carne, nella storia, nella concretezza
scandalosa del vero uomo Gesù nostro Signore e Dio.
In breve, la specificità dell’apporto di questa tesi
non risiede nell’analisi dei pensieri dei protagonisti giacché essi non
erano teologi di professioni. La sua particolarità e grandezza sgorga dal
coraggioso confronto con i vissuti (che naturalmente integrano i pensieri
e le visuali), con l’affiorare della verità testimoniale, con la messa in scena
della portata teologica della vita impegnata nella politica, nella cultura,
nella presenza sociale e pastorale e nell’integrazione-incarnazione nel proprio
territorio. Siamo al cospetto della «verità testimoniale», dove il testimone si
configura come «segno eloquente di un’assenza» (G. Lombarda), e si trasfigura
come segno quasi sacramentale di una presenza, della Presenza reale e
realizzante del Dio che scrive dritto anche sulle righe storte della storia.
Non da ultimo, seppure non sia una pretesa esplicita del testo, questo saggio è
un simpatico contributo alla «teologia della storia», un tentativo di leggere e
scrivere nello stile degli autori ispirati della Scrittura, i quali
nell’ordinarietà della storia e dei vissuti marginali vedono l’epifania e la
manifestazione di Colui che è «Il Cuore del mondo».