Invito alla lettura del saggio "Itinerarium cordis in
Deum" di Robert Cheaib
di Federico Grosso
Quando la teologia parla di se
stessa, inevitabilmente si trova a narrare quel versante di sé che va sotto il
nome di teologia fondamentale. Paradossalmente rischierebbe di essere
autoreferenziale proprio nella sua parte più estroflessa, protesa verso l’altro-da-sé.
Ma proprio per questa estroflessione, la teologia fondamentale il più delle
volte evita questo rischio, nei casi migliori anche con grande eleganza e charme.
È il caso di questo saggio, bello e sorprendente, di Robert Cheaib, con un
titolo affascinante dalle ascendenze bonaventuriane, Itinerarium cordisin Deum.
Il volume, pubblicato nella prestigiosa collana Studi e
Ricerche dell’editrice Cittadella di Assisi, è il frutto della tesi
dottorale dell’autore pressola Pontificia Università Gregoriana, diretta da
Elmar Salmann, il quale nella prefazione lo saluta come «un bel pezzo di
teologia fondamentale che ne riprende e rinnova le domande ed istanze sul piano
contenutistico e formale, dinamico e musicale, esistenziale e teorico». E ne
coglie così l’essenza.
Realmente un pezzo di bravura in cui le parti si
intrecciano con equilibrio, gli autori, di varia provenienza, dialogano con
profondità e leggerezza, lo stile fluisce con eleganza, il ragionamento si
dipana con chiarezza e convinzione.
1. Il percorso della teologia fondamentale
Mi pare che la prima affermazione di cui si deve dare ragione sia
proprio questa: l’Itinerarium che ci si apre davanti è proprio un
percorso di teologia fondamentale. L’autore stesso nell’ouverture offre
le coordinate per giustificare questa affermazione, disegnando un chiaro,
aggiornato e originale status quaestionis della disciplina
teologico-fondamentale, la più di frontiera tra le specializzazioni teologiche
(ma sul termine specializzazione dovremo tornare!). Figlia dell’apologetica
post-tridentina, la teologia fondamentale è chiamata in qualche modo a
svincolarsi sempre di più dai lacci di uno statuto epistemologico difensivo,
controversistico ed estrinsecista, in cui era incappata la madre, per
recuperare la dialettica stringente eppure lieve e ariosa tipica invece
dell’antica apologetica. Questa nobile antenata prendeva molto sul serio le
istanze e le obiezioni degli avversari e intrecciava con essi un dialogo
elevato, composto, argomentato, dialettico, colto, a volte anche ironico e
mordace, ma sempre di gran classe. In questo senso l’apologetica – come la
teologia fondamentale – dovrebbe essere proprio la disciplina dell’in-contro
con l’altro, dove l’altro è realmente altro-da-me, ma il contro è
preceduto dall’in, cioè dallo sforzo di mettersi nei panni
dell’interlocutore, di guardare le cose dalla sua prospettiva. È questo il
primo passaggio, e solo dopo può correttamente nascere il desiderio che
l’interlocutore a sua volta guardi le cose dalla mia prospettiva. Qui si
condensa la difficile arte del dialogo, che costituisce la primordiale
categoria della teologia fondamentale.
La vecchia – ma non l’antica! – apologetica si articolava in tre demonstrationes che
suggerivano un climax: la demonstratio religiosa tesa a
concludere la ragionevolezza dell’atteggiamento religioso; la demonstratio
christiana, che si concludeva affermando che il cristianesimo è l’unica
vera religione e stabilendo la credibilità e quindi la credendità delle sue
verità e infine la demonstratio catholica che individuava nel
dogma cattolico l’autentica declinazione ecclesiale della fede in ordine alla
salvezza. In fondo anche molti degli attuali trattati seguono il medesimo
schema: rivelazione di Dio e religiosa apertura dell’uomo ad essa, cristologia
fondamentale, ecclesiologia fondamentale. Ma lo stile è decisamente cambiato.
Intanto, ha ancora senso parlare di dimostrazioni? Si tratta di dimostrare un
teorema o piuttosto di mostrare un orizzonte di plausibilità e
di vivibilità? Ecco allora il passaggio dalla de-monstratio alla monstratio.
E ancora: tale passaggio non comporta semplicemente uno stile nuovo della
teologia fondamentale, ma altresì un interlocutore nuovo. La tematica del
rapporto fede-ragione è centrale nella teologia fondamentale: ma a quale
ragione la nostra disciplina intende riferirsi? La deriva controversistica ed
estrinsecista è stata l’esito di un dialogo condotto esclusivamente a livello
della ragione raziocinante e sul piano di una verità sillogistica e astratta.
In qualche modo, nel contraddittorio con l’avversario razionalista e
illuminista la vecchia apologetica ne aveva assunto non solo il linguaggio e le
categorie, ma paradossalmente, in un’insidiosa variante della sindrome di
Stoccolma, anche i difetti e i corto-circuiti. La ragione a cui si rivolge la monstratio è
invece più articolata, ampia e rispettosa della complessità della persona
umana, una «ragione integrata» di cui fanno parte a pieno titolo anche le
cosiddette «ragioni del cuore» in tutta la loro colorata e intrigante varietà.
Ci sia permesso uno slogan: l’uomo e i suoi orizzonti vitali, affettivi e
conoscitivi – anche in ordine alla fede – sono molto più ampi e ricchi di
sorprese per esaurirsi nel solo organo raziocinante!
2. Un’originale e interessante proposta di itinerario
Robert Cheaib, giovane e brillante teologo libanese naturalizzato
italiano, marito di Camilla e papà di Nathan e Joseph, ci propone nel suo Itinerarium un’interessante
e originale declinazione del percorso appena sintetizzato, con un taglio
squisitamente fenomenologico e testimoniale, affidando le tre monstrationes ad
altrettanti autori di grande fascino e spessore.
La monstratio religiosa è svolta da Viktor E.
Frankl, celebre psicanalista austriaco di origini ebraiche, epigono eretico di
Freud, passato per la drammatica esperienza dei campi di concentramento nazisti
da cui è nato il celebre best-seller Uno psicologo nei lager. «Con
Frankl si è vagliata la coscienza e la sua pro-tensione verso il senso come
apertura al Sovrasenso personale». In questo frangente è affascinante e geniale
l’intuizione di Frankl, che sta alla base della sua logoterapia, che coglie un
senso soggiacente al reale anche nelle esperienze più drammatiche e
apparentemente prive di senso, come potrebbe essere quella dell’odio allo stato
puro che regna in un lager. Tale intuizione è profondamente e autenticamente religiosa.
A Maurice Blondel tocca la monstratio christiana. Il
grande filosofo francese dell’action distinguendo tra volontà
volente e volontà voluta, vede in quest’ultima «l’incarnazione del desiderio che
sospinge l’uomo verso una pienezza che l’uomo non può dare a se stesso, verso
un Unico necessario ma impraticabile, da accogliere come dono».
Infine la monstratio catholica si dipana sotto la
mano sapiente di John Henry Newman, prelato anglicano convertitosi al
cattolicesimo, divenuto poi cardinale e recentemente proclamato beato da
Benedetto XVI. Ancora una volta entra in gioco la coscienza, proposta da Newman
come «testimonium Dei nell’intimo profondo dell’uomo». Il merito e
l’originalità della riflessione del teologo britannico è di aver introdotto nel
vocabolario teologico, allora ingessato e compassato quanto basta, la facoltà
dell’immaginazione come elemento cardine della «grammatica dell’assenso» di
fede, capace di catalizzare quel «senso illativo» (illative sense) che
declina individualmente e comunitariamente l’assenso con un gesto panoramico e
ad un tempo preciso e mirato, con un consenso cumulativo che compone sinfonicamente
le tante sfaccettature della verità.
Mi verrebbe da dire che proprio questo senso illativo diventa
anche la chiave di lettura dei contributi dei tre autori analizzati, dato che
il loro apporto va colto non solo nella straordinaria qualità del loro
pensiero, ma anche nella loro ex-posizione esistenziale, cioè
nell’intreccio affascinante e fecondo in cui fede e vita, biografia e pensiero,
riflessione e testimonianza si illuminano vicendevolmente in uno straordinario
contrappunto ermeneutico.
Nella «fuga sistematica» con cui raccoglie e rilancia la sua
interessantissima proposta, Robert Cheaib propone cinque tesi che delineano il
fascinoso viaggio in cui la teologia diviene autentico itinerarium cordis in
Deum. La prima tesi afferma che «la via più connaturale per riconoscere Dio
è quella del catecumenato dell’interiorità […] ove si apre un varco per
un’affermazione e un inter-esse in/con/verso Dio». La seconda tesi vede nella
ricerca del senso, connaturale all’uomo, e nella sete di una realizzazione globale
di sé, una promettente premessa per poter percepire Dio a partire dalla propria
quotidiana esperienza categoriale, in una congeniale apertura alla
trascendenza. La terza tesi, forse la più squisitamente teologico-fondamentale,
propone, in nome del principio dell’Incarnazione, un recupero della dimensione
sensoriale e, perché no, perfino corporea e addirittura sensuale, nella
conoscenza di fede e nell’assenso credente. La verità del Dio fatto Uomo si
propone e si espone all’uomo mediante la grammatica e la sintassi della vita,
rivolgendosi alla totalità del suo essere e alla sorprendente ampiezza, varietà
e complessità delle sue facoltà conoscitive. La quarta tesi è dedicata al
recupero del valore noetico dell’esperienza, vista appunto come «istanza noetica
e veritativa» e non solo come oggetto della riflessione. Ancora una volta viene
sottolineato il valore della dimensione biografica e vitale dell’esperienza –
«esperienza esperienziale» – che è reso magnificamente dal termine casigliano vivencia.
La quinta tesi indica come compito urgente per la teologia fondamentale quello
di riappropriarsi della categoria della testimonianza, l’unica capace – oltre
che di «rendere la fede più simpatica»! – di mostrare «la rilevanza della fede
nell’atto stesso di viverla».
3. Una manciata di suggestioni conclusive
Questo saggio, oltre a tutto il resto, è scritto bene. E ciò
implica, al di là del dato linguistico e formale, la capacità non tanto di
esaurire un argomento quanto di dischiudere un orizzonte, di suggerire un percorso,
di accompagnare l’inizio di un nuovo ed entusiasmante viaggio. In una parola:
aiuta a compiere quel delicato passaggio intellettuale ed esistenziale dalla
teologia alla vita, dalla ricerca accademica all’esperienza mistica, dalla
dossografia alla biografia credente e testimoniante. E tutto ciò prelude di per
sé a nuovi inizi. Concludo allora queste righe di invito alla lettura con una
manciata di suggestioni, che hanno anch’esse il modesto proposito di mantenere
aperto il dialogo.
Innanzitutto un’osservazione teologico-epistemologica che è stata
già anticipata. Pensata e proposta nel modo che abbiamo ripercorso, la teologia
può ancora sopportare di essere declinata come una silloge di specializzazioni
o non dovrebbe forse muoversi verso uno statuto epistemologico più globale,
panoramico, comprensivo, accogliente, mi verrebbe da dire olistico?
O forse alligna ancora, nella chiesa e nelle facoltà teologiche, la paura che
una siffatta teologia sia troppo imprecisa, fumosa, new age, e
troppo poco fondata e veritativa? Questo Itinerarium, semmai ce ne
fosse bisogno, scioglie brillantemente un simile dubbio.
Se è vero tutto ciò, mi sembra che il film di Roberto Benigni La
vita è bella e quello di Radu Mihaileanu Train de vie –
autentiche e affascinanti riletture cinematografiche delle idee di Frankl –
possano essere visti come metafore di una teologia che, pur nelle
contraddizioni spesso drammatiche del vivere quotidiano, diventa sogno,
narrazione, itinerario che dà sapore e indica un senso all’esistenza. Con il
linguaggio della narrazione coinvolgente, capace di parlare a tutto l’uomo
– itinerarium cordis, appunto – la teologia espone e propone a
vivere la fede come istanza vera e preziosa, anche se oggi da molti
dimenticata, per una vita realmente bella. Federico Fellini, il
grande regista de La dolce vita – quanta vita in
tutti questi titoli! – in un’intervista concessa poco prima della sua morte,
ricordava la grande tristezza che provava da ragazzo quando nei titoli di coda
dei film compariva la parola «fine». A lui invece piaceva immaginare che i
personaggi continuassero a vivere, a soffrire, ad amare anche al riaccendersi
delle luci in sala, dopo la proiezione. Perciò scelse di non mettere mai la
parola «fine» al termine dei propri film. Mi è tornato alla mente questo
racconto così suggestivo leggendo le belle parole di congedo dell’Itinerarium di
Robert Cheaib: «La teologia, quale discorso su Dio, diventa un percorso che
prosegue oltre i limiti dei ragionamenti per seguire la dinamica dello spirito
che è “un sentiero che cammina” verso l’orizzonte infinito per giungere
all’ “insatiabilis satietas” della vita in Dio».