Robert Cheaib
Il suo stile è ben diverso da quello dei grandi scrittori russi dell’ottocento come Dostoevskij o Tolstoj. Le
descrizioni sono minimali, come anche i dialoghi. Manca pure la proposta etica
o ideologica. I racconti di Čechov sono senza pretesa. Il pensiero personale di
Čechov è quasi inafferrabile. Lui è più un fenomenologo distaccato che narra
senza apparente finalità, ripercorre senza optare, descrive senza affezionarsi.
Era convinto, infatti, che «l’uomo diventerà migliore quando gli si mostra la
propria verità così come è». Le sue si presentano, quindi, come parabole
asettiche lasciando a ognuno l’impegno e la fatica di leggersi dentro, per
quanto e quando è possibile.
Lo stile di Čechov è essenziale,
ancorato alla realtà, positivista, ateo, amorale e materialista. Quello che gli
interessa è mettere in luce la situazione umana nella sua misera verità: «Noi
non abbiamo scopi, né vicini né lontani, e la nostra anima è vuota. Non abbiamo
opinioni politiche, non crediamo più alla rivoluzione, Dio non esiste, nessun
fantasma ci fa paura».
Nonostante ciò, Čechov non può essere
liquidato come un ateo insignificante o superficiale. I suoi racconti rivelano
un tessuto complesso. Il vuoto è solo apparente, colto dai cinque sensi, ma la
profondità dell’uomo è ancora un immenso da scoprire, da decifrare. Čechov non
risponde, ma senza volerlo (o forse volendolo) lascia uno spiraglio di luce,
uno spiraglio che si apre forse grazie all’aria cupa lasciata dal vuoto
intollerabile.
Questa complessità e profonda ricchezza
guadagnano per alcuni dei racconti di Čechov un posto tra i volumi della
collana biblioteca universale cristiana delle Edizioni San Paolo.
Si tratta di quattro racconti: Il vescovo, Lo studente, Il
monaco nero e Il violino di Ròtschild.
Riccardo Ferrigato, il curatore del
volume Il vescovo e altre novelle, individua il denominatore comune tra
questi racconti: siamo dinanzi a quattro uomini «chiusi in se stessi, vittime
di una profonda solitudine impossibile da aggirare e lasciarsi alle spalle.
Puntate che raccontano un destino che colpisce tutti, quello
dell’incomunicabilità, di una distanza abissale con gli altri e dell’incapacità
di costruire relazioni sociali e interpersonali». La solitudine, d’altronde, è un tratto
esistenziale di cui Čechov è convinto. Lui che ebbe a scrivere: «Se temete la
solitudine, non sposatevi». L’unica certezza pare essere solo la sofferenza. La
certezza della sofferenza e della solitudine è focalizzata nel momento della
morte vista, non come occasione di redenzione e di passaggio, come il momento
del rimpianto della vita perduta nei meandri della solitudine. Čechov non da
risposte di senso, ma forse la sua fatica di porre la domanda è un invito a
riflettere, a rileggere l’esistenza, la propria esistenza sotto una luce
sensata, a rinvenire il proprio senso. Forse il vuoto che dipinge e di cui fa
sentire il peso è un richiamo di Dio, è un’apertura a una possibile esperienza
religiosa.