Robert
Cheaib
Ci sono tre specie di
dialogo: quello autentico, quello tecnico, e il monologo travestito da dialogo.
Così Martin Buber riassume i tipi di dialogo, mostrando che l’essere dialogico non
è necessariamente l’essere che parla. Il dialogo autentico, infatti, può essere
sia parlato sia silente. La sua essenza non consiste nella chiacchiera, ma nel
fatto che «ciascuno dei partecipanti intende l’altro o gli altri nella loro
esistenza e particolarità e si rivolge loro con l’intenzione di far nascere tra
loro una vivente reciprocità».
Il dialogo tecnico, è il
dialogo convenzionale delle professioni, volto a un’intesa oggettiva. La
negazione del dialogo, invece, è «il monologo travestito da dialogo, in cui due
o più uomini riuniti in un luogo, in modo stranamente contorto e indiretto, parlano
solo con se stessi e tuttavia si credono sottratti alla pena del dover
contare solo su di sé».
Il libretto Sul dialogo.
Parole che attraversano, di Martin Buber è un invito a conoscere la natura
esigente del dialogo. Il dialogo ci configura e ci trasfigura… è una cosa
seria! Uno può lavorare anche nell’aiuto umanitario e trovarsi
quotidianamente a parlare con gli altri, ma rimanere al di qua dell’esistenza dialogica
perché «vita dialogica non è quella in cui si ha a che fare con molti uomini,
ma quella in cui si ha davvero a che fare con gli uomini con cui si ha a che
fare» (47). L’eremita a volte può portare nel cuore un dialogo empatico con il
mondo che un uomo immerso e affogato nelle folle può solo sognare.
D’altronde, «come anche lo
scambio di parole più animato non costituisce una conversazione (ne è una
chiara prova quello strano sport esercitato da uomini dotati in certa misura di
pensiero, che, con una parola che coglie nel segno, viene chiamato discussione,
dibattito), così, d’altra parte, una conversazione non necessita di suoni,
neppure di gesti» (11). Si pensi al dialogo silente degli occhi degli
innamorati, i quali con uno sguardo comunicano e si capiscono.
Il sacramento dialogico
Martin Buber |
Non ci capita a volte, nel
frastuono della città e nell’affollamento di una metrò, di incontrare – sì,
dico incontrare – una persona e di sperimentare una rivelazione di un
volto, di una «natura dialogica»? La dialogicità, infatti, non è limitata al
rapporto che gli uomini hanno gli uni con gli altri. Essa è «un
atteggiamento degli uomini gli uni verso gli altri, atteggiamento che solo nel
loro rapporto si manifesta» (21).
Il dialogo e Lui
La parola orizzontale e la
parola verticale non sono scindibili: «Sopra e sotto sono legati l’uno
all’altro. La parola di colui che vuole parlare con gli uomini senza parlare
con Dio non trova compimento; ma la parola di colui che vuole parlare con Dio
senza parlare con gli uomini si smarrisce» (36).
Buber offre un racconto molto
incisivo al riguardo: «Si racconta che una volta un uomo entusiasta di Dio,
abbandonando il regno della creazione, vagò nel grande vuoto. Lì andò errando,
finché giunse alle porte del segreto. Bussò. Da dentro gli fu chiesto: “Che
cosa cerchi qui?”. Disse: “Ho proclamato la tua lode agli orecchi dei mortali,
ma erano sordi alla mia parola. Allora giungo a te, perché tu stesso mi ascolti
e mi risponda”. “Torna indietro”, si udì dall’interno, “qui non c’è orecchio
per te. Ho inabissato il mio udito nella sordità dei mortali”» (37).
L’appello di Dio – nella
Scrittura e nella storia – è rivolto nello spazio della lingua vissuta. È nello
spazio dell’effimero che si incontra l’Eterno.
Se il rapporto con Dio è
amore, l’amore non può essere senza dialogo, senza esodo, senza andare incontro
all’altro, l’amore che rimane presso di sé è diabolico (49).
Il movimento dialogico è un
«rivolgersi», è assumere l’altro, empatire con lui, attenderlo ed essere
attenti a lui. È difficile? – senza dubbio, ma è possibile! D’altronde, «il
dialogo non si impone a nessuno. La risposta non è dovuta; ma rispondere si
può» (78). Questa è la sfida del dialogo che Buber continua a lanciarci. È una
sfida di umanizzazione della nostra umanità!
Photo: Some rights reserved by torbakhopper HE DEAD
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