I Padri del deserto sono un
tesoro inesauribile, non solo di spiritualità e di sapienza celeste, ma anche
di chiaroveggenza psichica e di acribia terrena. Ciò che distingue i loro
apoftegmi è, per così dire, l’astinenza dalla speculazione pura. Essi parlano a
partire dall’esperienza e rivolgendosi a essa. I loro detti, brevi e incisivi,
sono un condensato oracolare che mantiene una luce capace di attraversare i
tempi e di illuminare anche l’uomo d’oggi. Certo, vari aspetti e accenti della
loro spiritualità sembrano ormai datati, anzi, inadeguati, ma l’afflato di
fondo, quello della radicalità evangelica è fresco e attuale più che mai.
Seppure la spiritualità e i detti
dei Padri del deserto non siano estranei al pubblico italiano, il recente
volume – I Padri del deserto, Detti. Collezione sistematica, Qiqajon, Comunità
di Bose – costituisce una grande novità editoriale in quanto presenta la prima
traduzione italiana della collezione sistematica. L’edizione è
arricchita da una documentata e dotta introduzione di Luigi d’Ayala Valva,
monaco di Bose, che cura anche un ricco apparto di note per ogni capitolo.
I 21 capitoli tematici spaziano
su varie tematiche essenziali per la vita del monaco, ma non marginali neppure
per la vita di ogni cristiano. Si parla infatti di temperanza, della vigilanza
spirituale, del discernimento, dell’obbedienza, dell’umiltà, della carità…
Parlando di discernimento,
i Padri del deserto vedono in questa virtù/arte lo strumento indispensabile per
la perseveranza nella lotta spirituale. Antonio il grande, infatti, racconta
con rammarico che «vi sono persone che hanno logorato il proprio corpo
nell’ascesi e che, non avendo avuto discernimento, hanno finito per
allontanarsi da Dio». I Padri del
deserto erano convinti, infatti, che lo Spirito del Signore è Spirito di
armonia e di misura e che «ciò che è senza misura, è dal diavolo» (Abba
Poimen). Per questo Abba Antonio esorta a vigilare sulla moderazione e sullo
zelo negli sforzi ascetici, per poter perseverare senza perdere le forze.
Un altro aspetto molto prezioso della
loro spiritualità è la necessità della prassi per la vita spirituale. Nella
vita dello Spirito, infatti, si capisce ciò che si fa. Da qui il geniale
assioma blondeliano: fac et videbis (fa’ e vedrai). A questo proposito,
sempre abba Poimen dice: «Un uomo che insegna e non fa ciò che insegna somiglia
a una sorgente che dà da bere e lava tutti, ma non può purificare se stessa,
anzi nasconde in sé ogni sorta di sporcizia e d’impurità». L’Abba era convinto
che uno dei segreti di una sana vita spirituale è questo: «Insegna al tuo cuore
a custodire ciò che la tua lingua insegna». Mentre, secondo la testimonianza di
Cassiano, Abba Giovanni – quando gli hanno chiesto, sul punto di morire, «una
breve parola di salvezza» – ha insegnato quanto segue: «Non ho mai fatto la mia
propria volontà, né ho mai insegnato a nessuno qualcosa che non avessi fatto
prima io stesso».
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Il libro è disponibile su Qiqajon