Robert Cheaib
Si dice che il peccato
«originale» sia la volontà dell’uomo di essere come Dio. Questo è solo una
faccia del peccato. Vi è un volto complementare, quello della volontà di non
essere originale del tutto, di non volere la divinizzazione, di non voler
diventare secondo la somiglianza di Dio, di non voler giungere al Télos
(cf. Gv 13).
Nelle parole di Jürgen Moltmann,
«l’altro lato dell’atteggiamento di superbia consiste nella disperazione, nella
rassegnazione, nell’indolenza e nella mestizia». E spiega: «La tentazione non
consiste tanto nella pretesa titanica di essere come Dio, quanto piuttosto
nella debolezza, nella pusillanimità, nella stanchezza di chi non vuol essere
ciò che Dio si aspetta da lui».
«Ciò che lo accusa non è il male
che egli fa ma il bene che trascura»
Nelle parole di san Giovanni
Crisostomo: «Non è tanto il peccato che ci conduce alla perdizione, quanto
piuttosto la mancanza di speranza».
Ma perché l’anima si rifugia nella
disperazione?
- «La disperazione vorrebbe
proteggere l’anima dalle delusioni. “Chi troppo spera matto diventa”. Perciò si
cerca di rimanere sul terreno della realtà e di “pensare con chiarezza e non
sperare più” (A. Camus)».
Ed è qui il volto sottile,
pacifico e apparentemente quasi innocuo della disperazione: non è necessario
mostrare una faccia disperata, «può trattarsi della semplice e silenziosa
mancanza di significato, di prospettiva, di futuro e di scopo», anzi, «può
avere l’aspetto della sorridente rassegnazione: bon jour tristesse!
Rimane quel certo sorriso di coloro che hanno esaurito le proprie possibilità e
non vi hanno trovato nulla che desse loro motivo di speranza».
L’uomo che si ribella a Dio non
prende necessariamente le sembianze di Prometeo, ma anche quelle di Sisifo,
dell’onesto fallito che si ripiega sui suoi fallimenti e abbraccia
accontentandosi l’incompiutezza, il limite, l’assurdo, il nulla…
Ora, però, «la forza che rinnova la
vita non sta né nella presunzione né nella disperazione, ma soltanto nella
speranza durevole e sicura».
Hanno una forza misteriosa quelle
parole di Eraclito: «Ma chi non spera l’inatteso non l’avrà»!
Lungi dall’essere un’illusione,
Moltmann ci ricorda che solo la speranza ha diritto di definirsi realistica,
perché «essa soltanto prende sul serio le possibilità che sottendono tutta la
realtà. […] Le speranze e le anticipazioni del futuro non sono dunque un
fulgore di trasfigurazione destinato ad abbellire un’esistenza ingrigita, bensì
percezioni realistiche del vasto panorama di reali possibilità esistenti».
Quindi la speranza è ben lontana
dall’utopismo. Essa non si protende verso ‘l’isola che non c’è’, bensì «verso
ciò che ‘non ha ancora un luogo’, ma può averlo». Anzi, è la
disperazione che merita l’accusa di utopismo perché è essa che «si aggrappa
alla realtà esistente dubitando delle proprie possibilità» non concedendo al
possibile ‘nessun posto’.
Quindi la conclusione di Moltmann
è questa: «Le affermazioni della speranza dell’escatologia cristiana devono
imporsi anche all’irrigidità utopica del realismo per tener viva la fede e
condurre l’obbedienza, esplicantesi nell’amore, sulla via delle realtà
terrestri, fisiche, sociali».
*
Le varie citazioni sono riprese da J.
Moltmann, Teologia della speranza