L’importanza del «paesaggio interiore» nell’esperienza di Etty Hillesum
Robert Cheaib

Etty Hillesum, theologhia, ateismo, mistica, spiritualità
«E poi: si vive tanto, e la vita trabocca di esperienze. Eppure… si porta in se stessi, ovunque con sé, una grande e feconda solitudine. E talvolta, il momento fondamentale di una giornata è la quieta pausa tra due respiri profondi, quel tornare fino a se stessi in una preghiera di 5 minuti».
Non è necessario essere credenti per ritrovarsi nelle parole di Etty Hillesum e sentire, o almeno presagire, come un senso di inquietudine-da-mancanza, l’esigenza di quel tempo per l’anima che ci sfugge e da cui – quando lo si trova – fuggiamo a gambe levate. Siamo figli di un tempo che scorre e corre a una velocità che lascia l’anima senza fiato. Ma i ritmi inadeguati non spengono la sete dell’anima, anzi la acuiscono.
Se le parole e i pensieri della Hillesum hanno una presa particolare sulle persone, ciò è sicuramente dovuto all’insistente ricerca di autenticità per uscire dall’aritmia tra sapere e sentire, tra idea e realtà. Il breviario dagli scritti intitolato opportunamente Il bene quotidiano permette un contatto essenziale con i punti più incisivi del pensiero e della visione di Etty Hillesum.
A volte la nostra interiorità profonda si ribella contro i nostri progetti e ci troviamo davanti a una specie di lotta interiore, uno scisma dovuto forse al fatto che «non siamo del tutto in ciò che facciamo». È necessario allora riconciliare i nostri mondi. Ciò avviene in un dialogo a due sensi.
In una prima direzione, a volte l’anima che vola deve venire incontro alla fragilità di un corpo storico che non sempre è in vena di volare. Bisogna imparare la sapienza della povertà, del limite: «Davvero – scrive la Hillesum – non è che tu debba essere sempre ispirata, puoi anche affidarti tranquilla alla stanchezza». Solo attraversando se stessi, nella verità di se stessi, ovvero nella luce e nelle ombre, si è capaci di aprirsi a un vero incontro di confronto e accettazione con gli altri. «Quando qualcuno ha imparato a “immergersi in se stesso”, allora sarà capace di immergersi senza riserve in un altro o nel suo lavoro, e si farà più quieto e meno frammentato». E altrove: «Non pensare, ma ascoltare ciò che è dentro di te. Se lo fai la mattina, prima di metterti al lavoro, ti donerà una quiete che risplenderà sull’intero giorno».
Da qui si rende necessario il movimento nell’altra direzione, un movimento di ascesi e di ascesa per inverare se stessi. In questo ambito tutto è richiamo e tutto è chiamato a diventare autentico. È un cammino necessario per sincerarsi e aprire gli occhi a cogliere il bene quotidiano nei vari momenti e istanze del vissuto.
Due esempi dal vissuto della Hillesum rendono l’idea: lo studio e la scrittura. Per lei, il primo non è un mero dovere accademico o un’esigenza dettata da un attuale e futuro collocamento sociale, ma è «un’autentica esperienza di vita». È un’attività consistente nel portare con sé la propria «stanza silenziosa». Così anche la sua considerazione della scrittura. Seppure fosse una dimensione in cui era particolarmente dotata come ci testimoniano i suoi diari e le sue lettere, la Hillesum capisce che non poteva orientarsi verso la scrittura come mestiere. La scrittura – per lei – non può essere un dovere ma un’intima necessità. Scrive: «Vorrei che ogni parola che possa capitarmi di scrivere fosse una nascita, realmente una nascita, che nessuna fosse innaturale, che ogni parola fosse una necessità, altrimenti non ha alcun senso… Ogni parola deve nascere da una necessità interiore, scrivere non può essere qualcos’altro». E ancora: «Delle cose ultime e più serie della vita si dovrebbe parlare soltanto quando le parole ci sgorgano dentro in modo semplice e naturale come l’acqua da una fonte».
L’attenzione di Hillesum verte decisa sul mondo interiore considerato reale tanto quanto quello esteriore. «L’uomo, in se stesso, è il piccolo centro nel quale il mondo interiore e quello esteriore si incontrano». Se ci sentiamo spesso spezzati, ciò che è dovuto in gran parte all’estraneità al nostro paesaggio interiore e al contatto interrotto con «la corrente sotterranea» in noi stessi. Per uscire dallo stallo, si è invitati ad «appartenere al proprio vissuto». Questo incontro rinnovato ci apre a una meraviglia inaudita, quella della vastità dell’anima, della capacità dell’anima di accogliere e di intrattenersi con Dio.
La presenza di Dio nell’anima è costante ma fragile. Costante perché lui è lì, presente, non tramonta; ma è fragile, può essere «spezzata», rifiutata. Ritrovare Dio in sé, per la Hillesum, è sì, ritrovare l’ampiezza dell’orizzonte di senso e il garante della nostra apertura all’infinito, ma è anche diventare noi stessi «l’aiuto di Dio», e il garante della sopravvivenza di Dio nella coscienza umana! Per questo sono di una profondità inaudita le sue parole del 12 luglio 1942: «Ti aiuterò, Dio, a non spezzarti in me […]. Una cosa mi si fa sempre più chiara: che tu non ci puoi aiutare, ma siamo noi che dobbiamo aiutare te e facendo questo, alla fine, aiutiamo noi stessi. E questa è l’unica cosa che in questo periodo possiamo salvare, questa, che davvero importi: un pezzo di te in noi stessi, Dio».
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Il libro è disponibile su questo link: Il bene quotidiano