Robert Cheaib
Chi sa cosa avrebbe detto – o meglio cosa avrebbe scritto, data la sua
penna prolifica – Yves-Marie Congar, se fosse ancora in vita, dopo un po’ più
di un anno dall’elezione di Papa Francesco! Cosa avrebbe detto della scelta del
nome Francesco? Della spiegazione di Bergoglio della scelta del nome? Del primo
giovedì santo nel carcere minorile? Del compleanno celebrato con i poveri?
Dell’utilitaria “papale”? Dell’umile croce sul petto? Della sosta vicino al
“muro del pianto” palestinese? Dell’appello continuo al ritorno alla semplicità
e alla sobrietà evangelica?
Il teologo che ha preso le difese dei prêtres ouvriers contro un
rifiuto indiscriminato, ricordando che “un problema va compreso, non va
condannato”, sicuramente rimarrebbe incantato da un Papa che parla di «una
Chiesa povera e per i poveri». L’approvazione di Congar non ha bisogno di
essere supposta o ipotizzata, basti guardare il suo piccolo libro Pour une
Église servante et pauvre del 1963 per capire la consonanza della sua
visione con quella incarnata e invocata da Papa Francesco. Il volume viene
presentato al pubblico italiano dall’Editrice Qiqajon della comunità di Bose,
con una prefazione di Enzo Bianchi, priore della comunità. In appendice al
testo di Congar si trova la versione integrale del cosiddetto “Patto delle
catacombe”.
Il testo riproposto dopo circa 60 anni mantiene una sorprendente
freschezza, una freschezza che «circolava – come nota E. Bianchi – in tanti
ambienti ecclesiali, dai vescovi del “patto delle catacombe” ai primi gruppi
biblici laici, ai teologi giudicati sospetti solo pochi anni prima a persone
già allontanatesi dalla chiesa che ritrovavano stimoli per riaffacciarvisi e
lasciarsi interpellare dall’energia inesauribile del vangelo».
Quale povertà?
L’appello alla povertà rivolto da Congar alla Chiesa non è un invito banale
a un pauperismo spettacolare e – paradossalmente – esibizionista. Non è neppure
fine a se stesso, ma è strettamente connesso al servizio verso i fratelli, e
per rendere ragione della speranza. Forse le parole conciliari rendono in poche
battute l’afflato profondo e profetico dell’invito di Congar: «Come Cristo ha
compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la
Chiesa è chiamata a prendersi la stessa via per comunicare agli uomini i frutti
della salvezza» (Lumen Gentium 8). La testimonianza della povertà non è
sfoggio pelagiano, ma è una conformazione cristica apportatrice di salvezza. Se
è spiritualità, lo è perché strettamente agapica, cristologica e soteriologica.
La sfida del saggio di Congar è quella di porre e di proporre alla Chiesa
le sfide che lei stessa, riecheggiando il Vangelo, da sempre mette di fronte al
cristiano singolo come ideale di vita: il perdono ai nemici, preferire i mezzi
poveri, riconoscere la tentazione dello spirito di possesso e di potere (15).
Per fondare questa aspirazione, Congar costruisce la sua riflessione su un
doppio binario biblico e storico, condensando una lettura e una visitazione dei
testi scritturistici più importanti che devono forgiare il volto della sposa di
Cristo. Il farsi piccoli ed ultimi, la scelta prioritaria della diakonia verso
i più poveri e “i più piccoli” tra i fratelli di Gesù, essendo il discepolo non
semplicemente uno scolaro che riceve un insegnamento, ma «uno che imita il
maestro e ne condivide la vita» (29). Lo stesso Cristo invita esplicitazione
all’imitazione della sua figura di
maestro e signore che lava i piedi ai suoi amici. In quest’esortazione
Congar vede un ordine solenne e quasi una «ordinazione» (35).
L’evoluzione storica dell’idea di chiesa
Il saggio di Congar traccia l’evolversi di questa freschezza e radicalità
evangelica dalla Chiesa dei martiri fino all’epoca della redazione del volume.
In questa sede, il teologo dominicano nota come la liturgia antica non conosce
una separazione tra l’io di chi presiede e la comunità. L’autorità, affermata e
praticata (basti pensare a sant’Ignazio d’Antiochia), non distingue, bensì ordina
il vescovo al servizio della comunità. Tale volto di autorità è riassumibile
nella confidenza di san Cipriano: «Mi sono dato la regola, fin dall’inizio del
mio episcopato, di non decidere nulla secondo la mia opinione personale, senza
il vostro parere (presbiteri e diaconi) e senza il consenso del popolo». La
Chiesa antica, pur struttura canonicamente, esprimeva una grande docilità allo
Spirito che parla tramite il carisma del sensus fidelium.
Il «periodo benedettino» - come ama Newman chiamare l’epoca che va da san
Gregorio Magno a Sant’Anselmo - è segnato e abbellito da uomini dalla radicata
spiritualità (monastica) che incarnano gli ideali stilato dallo stesso san
Gregorio nella sua Regola pastorale. La convinzione di fondo è che l’uomo
che esercita l’autorità deve essere un uomo spirituale, e solo in quanto tale è
legittimato ad esercitarla. La convergenza tra ecclesiologia, antropologia,
spiritualità, escatologia e soteriologia non era il lusso di una
interdisciplinarietà accademica, ma l’espressione di una felice sintesi vitale.
L’epoca successiva, anche a causa del legittimo riscatto della chiesa dal
potere temporaneo dei sovrani, sarà segnata da un progressivo giuridismo che si
allontanerà gradualmente dall’antropologia spirituale (63). Il termine “chiesa”
inizierà a significare sempre più l’infelice e grave riduzione della comunità
cristiana e dell’insieme dei cristiani al «sistema, l’apparato, o il soggetto
transpersonale di diritto, di cui il clero – o, come si dice oggi, la
“gerarchia” -, ma in definitiva il papa e la curia pontificia sono i
rappresentanti» (64). Tale «gerarcologia» era estranea alla Chiesa
protocristiana e patristica.
Verso un recupero evangelico dell’autorevolezza
La via proposta da Congar è quella del recupero del carattere spirituale
della chiesa del martiri e dei padri, mirando ad edificare la comunità fatta di
uomini di Dio (72). Tale ritorno – secondo Congar – si fa sempre più necessario
perché «stiamo tornando a una situazione precostantiniana in un mondo pagano,
con la consapevolezza di esservi minoranza e di dovervi annunciare Gesù Cristo,
noi andiamo verso un tempo in cui, senza nulla perdere delle acquisizioni
valide fatte nel corso della storia, ritroveremo forme integralmente
evangeliche di esercizio dell’autorità nel mondo nuovo in cui Dio ci chiama a
servirlo» (75).
Congar delinea così una visione e una figura cristiana di autorità e
dell’esercizio della stessa che possiamo riassumere in un’espressione di Lucien
Laberthonnière che afferma (in sintonia con l’Aquinate): «L’esercizio
dell’autorità, in generale, non è che una delle forme di ciò che noi dobbiamo
fare gli uni attraverso gli altri e gli uni per gli altri in vista del nostro
comune destino». L’esercizio dell’autorità allora si manifesta come legittimato
dalla sua finalizzazione teologale e teologica. Il ministero è in vista del vivere
la carità di Cristo e va esercitato secondo questa stessa finalità nel dono
totale e definitivo di sé. In forma più aforistica sarebbe non dominari, sed
ministrare.
Ciò non costituisce affatto una negazione o, peggio, una demonizzazione
dell’autorità. Il teologo di Saulchoir non è ingenuo! Egli sa e afferma chiaramente
che «sarebbe errato pensare che l’ideale del servizio nell’amore elimini ogni “potete”».
Egli sa bene che nell’autentica visione evangelica vi è un posto fondamentale e
fondativo dell’autorità. Un’autorità che è exousia, e che non ha bisogno
di imporsi perché contiene in sé la propria legittimazione, una legittimazione
volta a Cristo e da lui voluta. È solo una trasfigurazione del volto dell’autorità:
non servirsi del gregge ma servirlo. Non pascolare se stessi a spese del
gregge, ma offrirsi fino all’immolazione per il gregge. Il potere è necessario,
ma bisogna concepirlo, come un dovere e
non come un diritto, come spiega bene il grande filosofo russo Nikolaj Berdjaev
che afferma che «il potere è giusto solo se non lo si rivendica a nome proprio
e della propria cerchia, ma soltanto in nome di Dio, in nome della verità».
Questo potere, per essere esercitato degnamente dalla Chiesa di Cristo va
salato con due condimenti imprescindibili: povertà e servizio.
In breve, il libro di Yves-Marie Congar è chiaroveggente nelle sue
previsioni, profetico nella sua visione e accattivante nella sua visuale. Una
lettura raccomandata.
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