Pregare è essenzialmente fare esperienza della presenza di Dio e lasciar
trasformare la propria vita a partire da quest’esperienza. Senza questo “fare
spazio” all’Altro, non esiste preghiera, almeno, non nell’accezione cristiana
del termine. Propongo tre intuizioni fondamentali sulla preghiera inspirate al
libro del metropolita ortodosso Anthony Bloom nel libro Scuola di preghiera
edito
da Qiqajon.
Il Dio del dia-Logos
La preghiera permette ed esige il passaggio dall’anonimato del Dio in terza
persona – “Egli” – al dialogo io-tu. In altre parole, preghi se “Egli” diventa
per te un “tu”. La fede nel senso biblico del termine non è un’affermazione
razionale e distaccata dell’esistenza di Dio, ma un riconoscerlo come Signore e
Interlocutore per eccellenza della mia esistenza. A ragione scriveva Martin
Buber: «Se credere in Dio significa poter parlare di lui in terza persona, non
credo in Dio. Se credere in lui significa potergli parlare, allora credo in
Dio». Da questo si capisce come imparare a pregare sia il caso serio della vita
credente. È l’istanza personalizzante del generico religioso.
Ora il riconoscimento personale non è solo una presa di coscienza, ma è una presa di posizione. Per pregare è necessario «avere qualcosa in comune» con Dio, qualcosa che dia «occhi per vedere, capacità di percepire». Il cuore deve liberarsi dalle scorie e puntare verso il regno di Dio, desiderare l’unico necessario. «Dobbiamo almeno preoccuparci della sua volontà, anche se ancora non siamo capaci di adempierla». Pregare allora è fare verità, prendere posizione.
Dio sotto la pelle
Ciò che impressiona positivamente nell’insegnamento di Bloom sulla
preghiera è la concretezza e l’incarnazione. Egli sostiene, secondo il meglio
della tradizione ortodossa, che la creazione è piena delle energie divine, che
niente – come tra l’altro insegna san Paolo – è impuro in se stesso. Per cui, l’uomo
spirituale, l’uomo di preghiera, è l’uomo che impara a incontrare Dio
dappertutto e attraverso tutto.
Per rendere meglio l’idea, il metropolita riporta un’osservazione meno
conosciuta collegata alla famosa espressione di Yuri Gagarin, il cosmonauta
ateo, che dichiarò al suo ritorno dallo spazio: “Non ho visto Dio tra le
stelle, né angeli”. A questa nota affermazione, uno dei semplici preti di Mosca
replicò dicendo: “Se non lo avete mai visto sulla terra, non lo vedrete mai nel
cielo”.
La questione è quella di allenare lo sguardo e il cuore perché «se non ci è
possibile trovare un contatto con Dio sotto la nostra pelle, allora le
possibilità che abbiamo di riconoscerlo, anche se lo incontriamo faccia a
faccia, sono molto scarse», perché solo «chi trova la porta del proprio #cuore
scoprirà che è la porta del regno di Dio».
Questo insegnamento non è per niente un invito a un solipsismo egocentrico
che è molto alla moda nell’ambito della cosiddetta “spiritualità fai da te”. Si
entra in sé non per ripiegarsi su di se stessi in un’introspezione psicanalitica.
Non si tratta di un viaggio all’interno di noi stessi, ma attraverso
noi stessi verso Dio.
Sulla base di questa ricerca c’è la convinzione di fede più profonda che
Dio non è lontano, non è fuori, ma è con noi e vicino a noi. Un grande maestro
della preghiera, Teofano il Recluso, afferma che tale percezione di Dio diventa
chiara nell’animo come un mal di dente!
Amministrare il tempo
Un ultimo aspetto che mi piace sottolineare del libro di Bloom che è un pratico
vademecum sulle vie della preghiera è quello dell’ordine. La prassi della
preghiera richiede una vita predisposta alla preghiera. Soffriamo come moderni
della frammentazione e della molteplicità di stimoli superflui. Una vita di
preghiera richiede una seria dose di ordine e di amministrazione del tempo. Non
è realista vivere un buon momento di preghiera in una vita caotica. La
preghiera, in fin dei conti, più che tempo dedicato a Dio è una vita immersa in
Dio.