Sono dure quelle parole ciniche di Voltaire che afferma: «La vita monastica non deve essere invidiata per nessuna ragione. C’è un detto molto noto: “I monaci sono gente che si mette insieme senza conoscersi, vive senza amarsi e muore senza rimpiangersi”». Sono parole dure, ma soprattutto non vere... almeno non sempre… grazie a Dio! A testimoniarlo sono quelle schiere di veri fratelli e sorelle che, malgrado l’umana difficoltà e imperfezione del convivio, hanno sperimentato e sperimentano la vera comunione di co-pellegrini verso il Regno. A queste testimonianze si aggiunge quella di Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose, che, nel libro Nella libertà e per amore edito da Qiqajon, ci offre una testimonianza che raccoglie i frutti maturati in «quarant’anni di vita monastica intensa».
Il piccolo volume consta di cinque capitoli ove i primi due ripercorrono la dimensione profetica del «Vivere altrimenti» monastico attraversando le varie tappe della scelta monastica. Un primo tratto “scandaloso” di questo vivere altrimenti è la natura disinteressata e “inutile” della scelta monastica. Una persona sceglie la vita monastica non per una particolare utilità. Nelle parole di Bianchi: «Noi monaci “siamo là” e non abbiamo uno scopo, se non quello di tentare di vivere l’evangelo […] Non si fa carriera nella vita monastica, non ci sono promozioni: si resta sempre fratelli e sorelle, poveri laici. “Noi siamo semplici laici senza importanza”, come diceva Orsiesi, discepolo di Pacomio, all’arcibescovo Teofilo di Alessandria». Il monaco è una persona che abbraccia la dimensione di xeniteía, di “stranierità” caratterizzata dalla fuga mundi, la fuga dalla mondanità, da distinguersi nettamente dal fuggire il mondo inteso come cosmo, come umanità e creazione di Dio.
Gli altri tre capitoli offrono una ricca riflessione sui tre consigli evangelici professati dai monaci: obbedienza, celibato e povertà.
Obbedienza
L’obbedienza inizia «con il dire “sì” alla vita, con il dire un “Amen” capace di ringraziamento per il fatto di essere venuto al mondo. Questo comporta assumere se stessi, la propria origine, il proprio corpo, le proprie fattezze, le forze e le debolezze fisiche o psichiche inerenti all’essere viventi». È interessante quest’annotazione primordiale che non va tanto a un’obbedienza fatta di atti prima di passare per l’obbedienza fatta di essere, fatta con la pasta del nostro semplice esserci. «Chi non è capace di obbedire alla propria qualità di creatura, non sarà mai capace di obbedire né al Creatore né alla sua parola, da chiunque sia testimoniata».
L’obbedienza passa attraverso l’ascolto e l’obsequium alla parola di Dio nelle Scritture. Questo è il primo compito del monaco. Un’obbedienza fatta seguendo il modello di Gesù Cristo che è allo stesso tempo exéghesis del Padre (cf. Gv 1,18), ma anche esegesi dell’uomo.
Celibato
Così il celibato è una sana tensione che si vive nella comunione e nella missione. Bianchi cita Bruno Maggioni che spiega come per i primi discepoli «il celibato si configurava come un servizio al Regno condotto insieme: in comunione con Gesù e tra loro. Le due dimensioni sono inseparabili. Nella comunione si anticipa il Regno, nella missione ci si pone totalmente al suo servizio».
Il celibato è inseparabile dalla preghiera perché solo così si comprende la conformazione del monaco a Cristo, dove la dimensione orante esprime la dedizione totale dell’amore.
Povertà
La riflessione di Bianchi sulla povertà parte dalla considerazione germinale della «povertà della condizione umana». L’uomo, in fondo, è una «creatura limitata, fragile, precaria, contrassegnata dal bisogno e dall’ineluttabile morte». L’accettazione di questa nostra umanità è condizione preliminare per accettare anche la povera umanità degli altri, per poter vivere con loro.
La povertà è una dimensione fondamentale della spiritualità biblica espressa nell’Antico Testamento attraverso la categoria preferita dei ‘anawim, i poveri di Adonai (cf. Sof 2,3), ma anche nel Nuovo Testamento, nella figura di Gesù, il povero per eccellenza. Il quale «da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi della sua povertà» (2Cor 8,9). Il Figlio ha svuotato se stesso, rinunciando alle sue prerogative divine e ha assunto la condizione di servo. «Gesù ha voluto vivere la povertà radicale, ontologica della condizione umana, e ha fatto questa scelta per amore, per solidarietà con noi uomini e nella libertà dell’ékstasis trinitaria dell’amore».
Gesù è stato il povero per eccellenza, non nel senso sociologico del termine, ma nel senso di una povertà di ‘anaw, di “mite e umile di cuore”, di uomo di condivisione e di comunione. Per questo Bianchi sottolinea il senso della povertà nel vivere l’agape, la condivisione, nel lavorare con le proprie mani, nell’aiutare i poveri e nella sobrietà della vita.
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La testimonianza di Bianchi è un ricco invito a riflettere in modo rinnovato sul senso della testimonianza profetica della consacrazione monastica e sul senso antropologico, biblico e teologico dei sempre attuali consigli evangelici.