«Ciò che non è stato assunto, non è stato guarito» (Gregorio
di Nazianzo). La salvezza non è un manto estrinseco che copre la creatura o un’opera
che avviene con una bacchetta magica. Perché questo? Perché la vera salvezza
non è solo la liberazione dal peccato, ma è la divinizzazione (Theosis):
divenire per partecipazione ciò che Dio è per natura. È entrare nella vita di
Dio che è Amore.
Dio non fa la carità,
Dio ama. Dio salva ciò che assume, ciò che sposa, ciò che trasforma.
Nella Scrittura il Signore è chiamato «fuoco divorante» (Sal 18,9; Eb 12,29).
Ciò che viene a contatto reale col fuoco diventa incandescente, si trasforma
esso stesso in luce, fuoco e calore. «Dio si è fatto uomo, affinché l’uomo
diventasse Dio» (Ireneo di Lione, Atanasio d’Alessandria).
L’incarnazione è in vista della divinizzazione. Un passo di
un teologo laico del XIV secolo, Nicolas Cabasilas, mostra come l’opera di
Cristo è stata un progressivo abbattimento dei muri che separano Dio e l’uomo:
Giacché gli uomini sono
separati da Dio per tre motivi e cioè per la loro natura, per il loro peccato e
per la loro morte, il Redentore, eliminando l’uno dopo l’altro gli ostacoli, ha
fatto sì che s’incontrino senza impedimento alcuno e si ritrovino senza
frapposizioni. Il Redentore ha eliminato il primo ostacolo partecipando alla
natura umana, il secondo facendosi uccidere sulla croce e abbatté infine l’ultimo
muro quando, risorgendo, ha bandito per sempre la tirannia della morte dalla
nostra natura.
«Cristo è risorto». La morte non è stata l’ultima parola
nella vicenda di Gesù di Nazaret. Questo è il fulcro della fede cristiana.
Questo è il kerygma pasquale. Una fede che si sofferma solo sulla
passione e morte è patetica. «Se noi abbiamo avuto speranza in
Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini»
(1Cor 15,19).
La risurrezione di Gesù è allo stesso tempo un evento
metastorico e storico; è oggetto di fede e motivo di fede. Essa è
oggetto di fede e contenuto essenziale dell’annuncio cristiano: «Se Cristo non
è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede»
(1Cor 15,14).
La risurrezione, però, è anche un evento accaduto nella
storia e del quale abbiamo degli elementi di verificabilità. Guardiamo in un
primo momento il volto storico e tangibile della risurrezione.
Il primo dato è la tomba vuota. È un fatto
incontrovertibile. La notizia del risorto non avrebbe resistito nemmeno un
giorno o un’ora a Gerusalemme se il corpo di Gesù fosse rimasto nella tomba, o
se fosse stato ritrovato altrove (Wolfhart Pannenberg). Roberto Giovanni
Timossi offre una riflessione sintetica ma incisiva al riguardo:
Nessun ebreo o pagano del
tempo avrebbe creduto alla risurrezione di Gesù in presenza di un cadavere
nella tomba prestata da Giuseppe di Arimatea e neppure nessuno di noi oggi lo
farebbe; e del resto una falsa tradizione così antica, sorta tra la stessa
gente di Gerusalemme spettatrice degli eventi della passione di Cristo, non
avrebbe resistito molto prima di essere sbugiardata e perfino ridicolizzata.
Non può essere difatti casuale che, da quanto ne sappiamo, nessuno degli
avversari del cristianesimo del I secolo a.C. ha mai messo in dubbio che il
sepolcro fosse davvero vuoto: se essi avessero potuto adoperare questo
argomento, lo avrebbero sicuramente fatto in grande stile, essendo il più
semplice e decisivo contro i cristiani.
La prova della tomba vuota rimane però una
prova-in-negativo, un argomento dall’assenza. L’argomento in positivo della
risurrezione sono i testimoni delle numerose apparizioni del risorto e
soprattutto il cambiamento repentino nell’atteggiamento degli apostoli e dei
discepoli: dalla paura e dalla fuga al coraggio e all’annuncio.
È la comunità risorta che è la testimonianza tangibile ed
empirica del Cristo risorto. La comunità ha reso testimonianza per la
risurrezione di Cristo come evento storico e come dato di fede metastorico,
comprovando la sua fede con la potenza dell’annuncio e dell’argomentazione
«secondo le Scritture» (cf. At 2,14-41; 3,12-26; 7,2-53; 8,26-39; ecc.) e
soprattutto con la testimonianza della vita fino al martirio.
La risurrezione, per loro, è oggetto di fede, è una
professione di fede abbracciata con coraggio fino alla morte. Essa è un evento
che supera la portata dei sensi. Gli apostoli stravolti dagli incontri con il
Cristo risorto hanno cercato modi umani per parlare di un evento divino
sovrumano. Possiamo enucleare due registri linguistici utilizzati per dire la
risurrezione:
- svegliarsi; ridestarsi:
Cristo è stato ridestato dalla morte. È come se la morte fosse un sonno da cui
Cristo si è risvegliato. Questa metafora esprime la continuità personale: il
Crocifisso è il Risorto.
- l’esaltazione, l’elevazione o la
glorificazione: questa metafora completa la prima in quanto esprime la
discontinuità, la novità. Anche se è la stessa persona, la risurrezione non è
una semplice rianimazione.
Al di là dei linguaggi e delle metafore, la risurrezione di Cristo
è il culmine del Vangelo perché annuncia che non solo Dio ama l’uomo peccatore,
non solo ha vissuto la sua morte, ma che il suo amore ha vinto la morte, che l’Amore
è più forte della morte. Nel messaggio di Pasqua del 2013, papa Francesco si
chiede:
Che cosa significa che
Gesù è risorto? Significa che l’amore di Dio è più forte del male e della
stessa morte; significa che l’amore di Dio può trasformare la nostra vita, far
fiorire quelle zone di deserto che ci sono nel nostro cuore.
Prima di contemplare l’ultima scena di questo capitolo
gustiamo un riassunto sulla vittoria dell’Amore offerto da Giovanni Paolo II:
Anche quando l’uomo pecca,
questo Dio lo cerca e lo ama, perché la relazione non sia fratturata e l’amore
continui a scorrere. E lo ama nel mistero del Figlio, che si lascia uccidere
sulla croce da un mondo che non lo riconobbe, ma è risuscitato dal Padre, quale
garanzia perenne che nessuno può uccidere l’amore, perché chiunque ne è
partecipe è toccato dalla gloria di Dio: è quest’uomo trasformato dall’amore
che i discepoli hanno contemplato sul Tabor, l’uomo che noi tutti siamo
chiamati a essere.