Siamo una generazione nata nella culla dell’utopia della società dei divertimenti e dell’Übermensch tecnocrate. Ci siamo identificati con questa «ultima versione aggiornata del paradiso terrestre che, al posto di un giardino, prometteva spiagge assolate e automobili veloci». Non potevamo quasi fare altrimenti: il clima di ottimismo creato ad arte da diversi fattori che ci promettevano uno sviluppo tale da produrre macchine che ci liberavano dal lavoro, lasciando a noi l’ambìto “lavoro” dell’ozio. Quella società, però, era un vero cavallo di troia. Nelle sue promesse di libertà spensierata ci ha portati a nuove e inaudite schiavitù. Di essa scrive il filosofo Pascal Chabot nel suo libro Burnout globale. La malattia del secolo edito dalla San Paolo.
Gli automi
autonomi
Chabot
analizza la situazione di assenso dell’uomo contemporaneo a un ritmo di vita
volto a realizzarlo e a renderlo felice, ma che in realtà lo esaurisce e lo
opprime. Il modello tipo degli uomini di oggi è dipinto dall’A. così: «Educati,
diplomati, lavoratori entusiasti: sono sostenitori zelanti dei modelli di vita
contemporanea ed è proprio grazie al loro attaccamento al lavoro – più di
quaranta ore a settimana – che il sistema si regge in piedi. Ed è proprio per
quel motivo che loro collassano» (9). Soffrono, in una parola, della «malattia
del secolo» che ci ha trasformati da figli contemplativi del mondo a padroni
sfruttanti.
Spinti
dal desiderio di essere autonomi diventiamo pian piano automi.
Abbiamo creato i computer per assisterci nell’impresa della felicità, siamo
diventati dei dipendenti infelici. È in questo contesto che si pone «l’esaurimento
professionale» consistente nell’essere abbattuti da: «l’accrescimento del
regime di produzione, l’accelerazione delle tempistiche, l’innalzamento dei
livelli di stress, la generalizzazione degli strumenti di controllo, i vincoli
che si fanno sempre più stretti» (11).
Il
burnout si presenta come la malattia del troppo, proprio come la
tossicodipendenza (21). Questo troppo, invece di accrescere le risorse le
esaurisce, estenuando il desiderio di vagliare le opzioni proposte. È una
fatica che sorge «tra volontà e tensioni, un tedio che abbatte il desiderio di
superamento, di lavorare con ardore per realizzare se stessi» (23). Anzi,
invece di ascoltarsi, si diventa sempre più sordi verso le proprie esigenze
reali immergendosi in una sordità lancinante trascinata da un’inerzia
illusoriamente vivace, che è in realtà un processo di spersonalizzazione. «L’individuo
sente un vuoto dentro di sé che si propaga, rapido come un fuoco, imprevisto
come una fiammata. Diventa questo vuoto, questa terra bruciata» (24).
Stanchi di Dio
La genialità
e la sorpresa del libro è quando declina questo fenomeno recente con le
categorie di un fenomeno antico quanto il monachesimo, il fenomeno dell’essere
«stanchi di Dio», noto nella teologia spirituale come «accidia». Quando si
legge di questo fenomeno nel dizionario di teologia cattolica (del 1932), si ha
l’impressione di parlare dell’oggi: «La fatica corporale, il sonno, la fame, le
tentazioni più frequenti e più violente, in assenza prolungata delle
consolazioni dei sensi, un dispetto che deriva dalle reali o apparenti
sconfitte nella lotta contro il male o da ammonimenti più o meno motivati, la
semplice monotonia degli esercizi regolari e il bisogno di cambiamento che ci è
naturale possono essere all’origine di una crisi».
L’accidia
per la vita spirituale è ciò che il burnout è per la vita ordinaria e
lavorativa. L’accidia è la pigrizia e l’insensibilità alla realtà di Dio. Essa
colpisce non il tiepido, ma lo zelante. Giuge le Chartreux la presenta così: «senti
dentro di te un pensate disgusto: devi cambiare te stesso; queste grazie
interiori che eri abituato a utilizzare così gioiosamente, per te non hanno più
nessuna soavità, la dolcezza che ieri e il giorno prima era dentro di te si è
ormai trasformata in una grande amarezza». Come “l’im-percezione” di Dio nell’accidia,
così anche il burnout «è sempre una rimessa in questione dei valori dominanti:
dà vita ai nuovi atei del tecno-capitalismo» (34).
Riforma
Tutti
questi fenomeni impongono un cambio di rotta, una revisione e trasformazione
dei propri stili di vita. Capire che «essere adatti a questo mondo significa
riuscire ad adattare il mondo ai propri progetti» (Joseph Nuttin). D’altronde
il colmo della vacuità e della frustrazione è vedersi obbligati a cambiare e ad
adattarsi continuamente senza potersi mai realizzare.
Una
seconda dimensione di reazione è iniziare a chiamare le cose con il loro nome. Il
sopraffarsi a oltranza di lavoro non verrà realmente affrontato finché è
chiamato ipocriticamente (e per comodità) “stress positivo”. E quante parole edulcorate
e fashion ci inventiamo per non chiamare le cose con il loro vero nome:
«Piegarsi alla misura numerica si chiama “valutazione”. Rispondere a un’infinità
di lettere piene di ingiunzioni e di richiamo si chiama “connettività”. Tenere
il proprio cellulare acceso a tutte le ore è “reperibilità”. Obbedire a
qualsiasi ordine è chiamato “reattività”. Rovinarsi gli occhi restando dodici
ore al giorno davanti allo schermo del computer è ribattezzato “disponibilità”.
È così che le parole strane inchiodano le persone alle loro sedie» (56-57).
Ci
accorgiamo che abbiamo bisogno di riformare gli stili della nostra vita quando
certe pratiche ed abitudini disumane come il “lavorare come un treno” diventano
complimenti. Siamo chiamati a lavorare e a vivere come umani! Siamo chiamati a
riformare il nostro rapporto alle cose, cogliendo il valore dell’unica moneta
che il mercato non può restituirci: il tempo, il tempo della nostra vita. Il tempo
è il nostro bene più prezioso.
«Io
cerco l’oro del tempo», diceva André Breton. Ritrovare se stessi coincide con
il superamento della «patologia della desincronizzazione» superando la confusione
tra utile e sottile. L’utile è necessario, il sottile (fatto del tessuto unico
delle nostre relazioni umane) è più che necessario, è la dimensione umanizzante
del nostro vivere.