Meno conosciuto
dal pubblico del maestro e amico Bernardo di Chiaravalle, Guglielmo di Saint-Thierry
non era però meno profondo e coinvolgente. Autore di varie opere di grande
spessore teologico e mistico, tra cui un famoso commento al Cantico dei
Cantici, Guglielmo (ca. 1070-1148) fu abate benedettino di Saint-Thierry e poi,
dal 1135, semplice monaco cistercense di Signy. La Lettera
d’oro del 1144 ca., nota anche come Epistola ad fratres de Monte Dei,
costituisce una sintesi del suo lungo e fecondo cammino di uomo e di monaco. La
Comunità
di Bose – Edizioni Qiqajon ha curato una nuova traduzione con note e
introduzione di Cecilia Falchini, monaca di Bose.
La cella e il
cielo
Questo grande
uomo avverte già verso l’inizio della sua Lettera che il cardine della crescita
spirituale è l’umiltà poiché «avere di sé un sentire alto è mortale; ed è
facile contemplandosi in alto, avere le vertigini e rischiare la vita» (17). L’orgoglio,
infatti, falsa la percezione e l’uomo orgoglioso inizia a valutare tutto con il
proprio ristretto metro di giudizio e di esperienza. Per questo Guglielmo
esorta: «Non voglio che tu pensi che il sole comune del giorno non risplenda
mai se non nella tua cella; che non sia mai sereno se non presso di te; che la
grazia di Dio non operi se non nella tua coscienza».
Il discorso di
Guglielmo si rivolge al monaco e per questo dedica una particolare attenzione
alla cella, ma l’allusione fisica alla cella monastica si applica alla stanza
interiore di ogni anima, specie nei tempi della distrazione a portata di mano e
di tastiera. L’abate di Saint-Thierry ricorda che «l’abitazione del cielo e
quella della cella sono partenti: poiché come “cielo” e “cella” sembrano avere
fra di loro una qualche parentela nel nome, così anche nella pietà. È da “celare”,
infatti, che sembrano prendere nome sia il cielo che la cella. E ciò che si
cela nei cieli lo si cela anche nelle celle; ciò che si fa nei cieli si fa
anche nelle celle» (31).
Dalla cella si
sale in cielo, anzi, il cielo dimora nella cella del cuore. Più avanti nella Lettera,
infatti, lo stesso Guglielmo ricorda la differenza tra la cella esteriore e
quella interiore: «Quella esteriore è la casa in cui abitala tua anima con il
tuo corpo; quella interiore è la tua coscienza, dove deve abitare, più intimo
di ogni tua intimità, Dio con il tuo spirito» (105).
Leggersi e
leggere
La perseveranza
nella cella, la stabilitas loci, aiuta la perseveranza dell’anima e il
rafforzamento della volontà. La porta della clausura esteriore è segno della
custodia e della stabilità interiore. Essa non deve essere un nascondiglio, ma
una custodia (cf. 106). E così, nella cella interiore l’uomo deve fare verità.
Siccome «nessuno ti ama più di te; nessuno ti giudicherà con maggior fedeltà»
(107).
Oltre al
leggersi dentro, dove l’uomo già trova sufficiente sollecitudine, Guglielmo
esorta alla lettura delle Scritture entrando nel modo di sentire degli autori
sacri: «Non entrerai nel modo di sentire di Paolo finché, per la consuetudine
di una buona intenzione nel leggerlo e per l’applicazione di un’assidua meditazione,
non ti sarai imbevuto del suo spirito. Non comprenderai David finché grazie all’esperienza
stessa non ti sarai rivestito del sentimento degli stessi salmi» (121).
Con la lettura
quotidiana, non si nutre solo la mente ma si fa scendere qualcosa nello
«stomaco della memoria, perché sia digerito con grande fedeltà e, di nuovo
richiamato, sia ruminato con intensa frequenza» (122). La lettura deve
diventare preghiera: «Dal corso della lettura dobbiamo trarre un sentimento
tale e deve prendere forma una preghiera tale che interrompa la lettura, e che
tuttavia non la ostacoli mediante tale interruzione, ma restituisca
immediatamente l’animo, più puro, alla comprensione della lettura» (123).
Essere ciò che Dio
è
La lettura deve
servire all’intenzione, deve confluire nella ricerca di Dio. Ogni comprensione vera
è cristificante. Il cammino della perfezione delineato da Guglielmo di
Saint-Thierry punta niente meno che a Dio stesso. Tutto il cammino spirituale è
una risposta al comandamento dell’amore. Amare Dio è volere ciò che egli vuole.
Ora «volere ciò che Dio vuole: questo è ormai
essere simili a Dio. Non poter volere se non ciò che Dio
vuole: questo è ormai essere ciò che Dio è, lui, per il quale il volere e l’essere sono una
stessa cosa» (258).
L’insegnamento
di Guglielmo recupera il senso profondo dell’insegnamento scritturistico,
patristico e mistico. Citando Girolamo che insegna che «non voler essere perfetto,
poi, è peccare», l’autore
della Lettera d’oro rammenta che la perfezione per l’uomo è la somiglianza con Dio: «Solo a tal fine,
infatti, siamo stati creati e viviamo: per essere simili a Dio, poiché a immagine di Dio siamo stati creati».