Parlando di demoni,
spiriti cattivi, pensieri cattivi può sembrare inattuale. Già la parola "accidia", ormai
caduta in disuso potrebbe darci l’illusione che essa sia un’esperienza del passato.
In realtà, l’accidia è diventata un male così diffuso quasi che ci si è arresi
di fronte alla possibilità di guarirne. Parleremo in questa seconda parte della
lettura del libro di alcune manifestazioni dell’accidia.
1- La perdita
di senso
Una delle prime
manifestazioni dell’accidia è il nichilismo. Esso è a ben vedere «un vero odio
dell’essere, uno smembramento della persona umana». È avere i mezzi per vivere,
ma non la finalità. È una vera e propria «depressione spirituale». Dicevamo che
accidia era anticamente la non curanza verso i propri morti, ebbene l’accidia
contemporanea si manifesta verso quella non curanza per un senso della vita.
Esiste o non esiste? – l’accidia contemporanea risponde senza parafrasare: «chi
se ne frega!».
2- La
disperazione
È il primo figlio
logico e temibile del nichilismo: la disperazione. Il giovane Joseph Ratzinger
profeticamente scriveva: «Ora che abbiamo pienamente assaporato le promesse
della libertà illimitata, cominciamo a capire di nuovo l’espressione “tristezza
di questo mondo”. I piaceri proibiti hanno perso la loro attrattiva appena han
cessato di essere proibiti. Anche se vengono spinti all’estremo e vengono
rinnovati all’infinito, risultano insipidi perché sono cose finite, e noi,
invece, abbiamo sete di infinito».
È come se l’atteso
non ancora sperimentato dava l’impressione utopica di compimento, ma non appena
è stato sperimentato nella sua piccola, ha prosciugato l’orizzonte di speranza
dell’anima con una disperazione indelebile.
San Tommaso, già
secoli fa, aveva segnalato che la radice della disperazione è da trovarsi nell’accidia
che è una mancanza d’amore, la mancanza del grande Amore. Quest’accidia,
spezzando lo slancio della speranza e rifiutando l’Orizzonte infinito, porta al
rifiuto anche dell’orizzonte finito. Essa è un «flirt con la morte».
3- Il continuo
bisogno di cambiare
Se l’accidia per
i monaci si manifestava nell’insofferenza verso la cella, nel caso dell’uomo
moderno essa si manifesta nella «frenesia del nuovo» e in una specie di
ribrezzo di ciò che dura troppo, di ciò che rimane al suo posto. Una coppia
stabile è una stonatura. Una persona con sane abitudini regolari è vista come
noiosa e rigida. L’ancora dell’accidia è il passaggio e il passeggero.
Secondo Nault, un
segno dell’accidia è la moda dello zapping, lo si vive davanti alla tv,
ma lo si vive nella voglia di fare troppe cose allo stesso tempo. La sindrome
tipica è avere il computer con almeno 10 finestre aperte che si alternano per
distrarci da quello che facciamo e, in ultima analisi, dalla nostra stessa vita.
4- Fuga da Dio
e il rifiuto della propria grandezza
La fuga di sé
manifestata nel tuffarsi in mille impegni che distraggono si accompagna a una
fuga da Dio. Scrive Ratzinger al riguardo: «La natura dell’accidia è la fuga da
Dio, il desiderio di … non essere disturbati dalla vicinanza di Dio».
Una figlia
sorprendente dell’accidia di cui parla san Tommaso d’Aquino è la pusillanimità.
Essa è il vizio opposto alla magnanimità, la nobiltà e grandezza d’animo. In
che cosa consiste? Consiste nell’incapacità di vedere la propria vita in
grande, di sognare progetti da realizzare e in fin dei conti diventare
«partecipi della natura divina».
Ratzinger
commenta scrivendo: «L’uomo non ha il coraggio di raggiungere la propria
grandezza; vuole essere “più realista”. L’indolenza metafisica (accidia)
sarebbe dunque identica alla falsa umiltà, che è diventata frequente ai nostri
giorni: l’uomo non vuol credere che Dio si occupi, che lo conosce, lo ama, lo
protegge e gli è a fianco».
Se il peccato in
Genesi 3 è la presunzione, il volere essere come Dio, oggi siamo agli antipodi
(certo, rimane comunque il peccato di orgoglio). Oggi assistiamo però alla
tentazione del suicidio metafisico: «sarebbe meglio non esistere». Si tratta
della pusillanimità dove l’uomo diventa nemico di se stesso, della propria
vita. Preferisce vivacchiare in pace che appassionarsi della propria vita.
I rimedi?
Come accennato
nella prima parte, la tradizione spirituale si è sempre prodigata per porre
rimedio a questo male oscuro, a quello che possiamo chiamare «cancro dello
spirito». Mi limito ad accennare a tre rimedi fondamentali:
Il primo è quello
che della gioiosa perseveranza. I padri del deserto, da realisti obbligati,
sapevano che la soluzione non consiste nell’abbandonare la lotta, ma nell’alzare
gli occhi al Cielo verso Colui che combatte con noi.
Il secondo
rimedio è la stabilità del nostro ambiente proprio. Vige qua il principio
ignaziano: in tempo di crisi e di desolazione nessuna scelta importante. Le
scelte si fanno nella calma e nella serenità. In tempo di lotta c’è un
polverone che acceca la vista e che altera i valori. Scrive Nault: «Conservare
la stabilità è il mezzo per evitare di cadere nell’utopia, cioè letteralmente
di ritrovarci “senza luogo”».
Il terzo rimedio
è quello di conservare la memoria. Quando il presente è muto, è importante far
parlare la memoria, il passato, le esperienze di grazia che ci hanno cambiato e
ci hanno portato fin qui. Il far memoria ci riporta alla dimensione eucaristica
della fede e dell’esistenza. Scrive Marguerite Léna: «Gesù Cristo ha scelto il
gesto più ripetitivo e più banale che ci sia: il mangiare e il bere, ha scelto
le mediazioni più necessarie e più modeste della vita: il pane, il vino, per
nascondervi dentro l’atto più inedito, più carico di senso e di finalità, il
solo capace di aprire la storia all’al di là della morte: l’amore “fino alla
fine”, il dono di sé fino alla Croce. In questo modo ha consegnato alla
normalità dei giorni, nella ripetizione sacramentale, l’avvenimento unico della
sua Pasqua, l’Ora fra tutte le ore. La frazione del pane è diventato il
memoriale eucaristico per tutta la durata della storia».
La memoria, il memoriale ci ricorda che siamo amati
eternamente, che la nostra vita vale agli occhi di Qualcuno, che noi contiamo
non per uno sforzo riuscito, ma per un amore gratuito che ci precede. Se questo
sapere diventa una coscienza radicata, l’accidia è già cacciata via.
Crea in me, o
Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno
spirito saldo.
Non respingermi
dalla tua presenza
e non privarmi
del tuo santo spirito.
Rendimi la
gioia di essere salvato,
sostieni in me un
animo generoso. (Sal 50)