In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione
di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno
territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono
di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le
dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso
il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli
si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava
correttamente.
E comandò loro
di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni
di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i
muti!».
Is 35,4-7 Sal 145
Gc 2,1-5 Mc 7,31-37
Essere sordomuto
significa simbolicamente essere interdetto in ciò che costituisce l’essenza
dell’esperienza di Dio in questo mondo, consistente – nella fede di Israele –
nello shema’, nell’«ascolta Israele». Significa anche essere interdetto
nella parola e quindi nella comunicazione con Dio e con gli altri. È una
condizione di solitudine oggettiva che va contro l’essenza dell’uomo come l’ha
pensata Dio: «Non è bene che l’uomo sia solo». Quello che Gesù fa qui è un
gesto di ricreazione e di rinascita, un gesto battesimale che restituisce
all’uomo la relazionalità. Il sospiro di Cristo esprime la com-passione del
Signore verso le nostre sofferte solitudini e la sua gestualità ricorda l’artigianalità
dell’opera creatrice di Dio in Genesi 2. Quando ricevi il corpo di Cristo
questa domenica, ricordati che lui è lì che ti tocca e che pronuncia su di te
le parole: «Effatà».