Credo la Vita eterna
«Vi sono molti modi di rifiutare il Padre e il
cammino verso di lui. Il più comune (e il più nascosto nell’inconscio) è di
rifiutare la morte». È lapidario Carlo Maria Martini quando parla del senso
dell’atteggiamento umano nei confronti della morte. Essa non è un fatto da
comprendere soltanto come un’evenienza fisiologica. La morte fa parte del
destino umano (e in questo senso ha ragione Heidegger a definire l’uomo come
Essere-per-la-morte come Sein zum Tode). Il giorno della morte è – nelle
parole del cardinale che riprende sant’Ignazio d’Antiochia nella sua lettera ai
romani – il giorno della nostra nascita.
Tutti muoiono e la morte è il
regno del silenzio, ma ci sono morti che squarciano il velo e parlano della
vita, la vita vera. Così la morte di Gesù parla della sua figliolanza. Il centurione
vedendolo morire così esclamò: «questi era veramente il figlio di Dio».
Anche la morte di Martini, accostata con un graduale ritiro nel silenzio della
preghiera e della preparazione all’incontro con il Signore, è profetica… parla...
Oltre alla sua vita, il
Cardinale ha parlato anche della morte, della sua realtà, dei suoi contorni. Le
edizioni San Paolo offrono una raccolta di interventi del Cardinal Carlo Maria
Martini che gravitano intorno all’ultimo articolo del Credo: Credo la vita eterna. Le meditazioni e le riflessioni rispecchiano l’inconfondibile stile
del Cardinale che sa intrecciare felicemente intuizione esistenziale,
ermeneutica biblica e afflato ignanziano.
Martini traccia un cammino di
riflessione intorno ai temi del morire, della morte di Cristo e della sua
risurrezione, dei novissimi, e della «piccola sorella» tra le virtù teologali
(come chiama Charles Péguy la speranza). Tale cammino, intorno a temi spesso
taciuti, sviati, temuti e repressi come la morte, l’avvicinarsi della fine
punta a vederne i contorni umani legittimi di angoscia, sgomento, paura, senso
di smarrimento, per aprire un varco di discernimento dall’interno della vita
umana e dall’annuncio della speranza insito nella parola di Dio.
Gesù e la morte: un faccia
a faccia
La riflessione del Cardinale prende
le mosse dalla paura della morte, che è un istinto ineliminabile, «un fatto
essenziale, brutto, in qualche modo ineliminabile; ed è garanzia di vivere,
perché mobilita gli istinti di conservazione, di resistenza, di aggressività
vitale. Non si può combattere la paura della morte con il ragionamento, perché
scatta da sé, è invincibile» (18-19).
Non possiamo fare finta che
questo sentimento non esista. E non possiamo, con un preteso spiritualismo,
dimenticarci di essere incarnati. Gesù stesso attraversò la paura e l’angoscia
della morte: «La mia anima è triste fino alla morte» (Cf. Mc 14,34). Una paura
così forte da essere mortale.
Vivere è anche imparare ad
aprirsi al mistero, al quale la morte fa come da sentinella. Vivere è anche
imparare a morire. La morte, infatti, è «l’ultimo atto di tanti drammi di cui
l’uomo è protagonista: malattia, vecchiaia, soprattutto se accompagnata da
acciacchi e solitudine, stanchezza, esaurimenti nervosi, perdita del gusto del
lavoro, degli incontri, della natura; […] Sono tutte forme di anticipazione
della morte e per questo le viviamo con paura, con orrore, vorremmo che non
fossero» (19).
Gesù riconosce di essere
turbato e supera la paura attraversandola con un’insistente preghiera. (cf. Lc
22,43). La lettera agli Ebrei afferma riguardo a Cristo: «Egli offrì preghiere
e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e,
per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (Eb 5,7). Gesù non fu
esaudito con la liberazione dalla morte, ma con il conforto che gli ha permesso
di superare la paura (25). «Gesù supera il timore della morte a caro prezzo; lo
supera affrontandolo, pregando e lasciandosi confortare da Dio; lo supera
uscendone perfezionato» (26).
La vicenda di Gesù ci
conferma sul senso e sulla correlazione tra vita e morte. Un senso che
risplende e s’invera con i bagliori del mattino di Pasqua. La correlazione è formulata
da Giuliano Vigini, curatore del volume, così: «Se nascere vuol dire essere
chiamati a un destino eterno, morire è andare incontro al compimento di tale
destino».
Sorella morte
È dall’esperienza di Gesù che
i santi e i martiri attingono le forze per affrontare la paura della morte.
Abbiamo tantissimi esempi di un simile coraggio nella storia del cristianesimo
nell’affrontare «sorella morte» (san Francesco) e nel «morire di non morire»
(Teresa d’Avila). Ma già dai tempi apostolici abbiamo il superamento della
paura della morte attestato dagli apostoli e dai primi martiri e che vediamo
stigmatizzato nelle parole di Paolo: «Per me il vivere è Cristo e il morire un
guadagno». Un esempio lampante del pathos dell’amore che sconfigge la
paura dalla morte è quello di sant’Ignazio d’Antiochia che considera la morte
come momento della sua nascita: «È meglio per me morire per Gesù Cristo che
estendere il mio impero fino ai confini della terra […]. È vicino il momento
della mia nascita. Lasciate che io raggiunga la pura luce; giunto là, sarò
veramente uomo. Lasciate che io imiti la passione del mio Dio. Vi scrivo che
desidero morire. Ogni mio desiderio terreno è crocifisso e non c’è più in me
fiamma alcuna per la materia, ma un’acqua viva mormora dentro di me e mi dice:
Vieni al Padre». Il superamento della paura dalla morte è per il Poverello
d’Assisi «la letizia perfetta».
Contemplando la vita dei
santi ci si accorge però di un elemento fondamentale: il superamento della
paura della morte non è uno sforzo umano, non è neppure un’acquisizione
intellettuale o comportamentale, è frutto di un incontro con il Dio vivo, con
il Cristo morto e risorto. Il superamento della paura della morte non è
un’invenzione umana ma frutto di un’invocazione divina. Per riceverla non
bisogna solo pensare, ma pregare con il cuore. «Passione di Cristo, confortami.
Non permettere che mi separi da te. Dal maligno nemico difendimi. Nell’ora
della morte chiamami e comandami di venire a te per lodarti con i santi in
eterno».
La vita celata nella morte
Ma come abbiamo già
anticipato all’inizio, la morte non è solo un fatto, essa è l’epilogo di un
cammino e la porta d’accesso a un incontro, è l’ultimo e radicale atto di fede
nell’amore di Dio e il definitivo affidamento alle/nelle braccia del Padre di
Gesù Cristo. Intesa così, fa meno meraviglia l’attesa vissuta dai santi di quel
giorno. Ognuno muore da solo e per se stesso, ma fare questo cammino nella
fede, lo rende – nella difficoltà e innaturalità del morire che permane! – un
incamminarsi verso un incontro, l’Incontro per eccellenza.
Così – per redimere la
definizione Heideggeriana – l’uomo non è un essere per la morte ma un essere
per l’Incontro, per l’unione con Dio. La morte è la via di passaggio verso la
speranza della risurrezione che a sua volta è «la morte e risurrezione delle
speranze umane» che dimostra «la miopia di tutto ciò che è meno di Dio e al
tempo stesso fonda il valore di ogni gesto di amore autentico» (68). Vivere
questa coscienza della morte diventa un impegno nuziale di attesa, di speranza
e di preparazione del cuore. È – per usare un’espressione di Martini – «vivere
i giorni feriali con il cuore della festa».
La festa che attraversa la
morte superandola si fonda nell’evento pasquale di morte e risurrezione di Gesù
che vive il morire come «consegna» dello Spirito nelle mani del Padre e
accoglie la risurrezione come «ri-consegna» da parte del Padre dello stesso
Spirito (cf. Rm 1,4). Così, il senso che l’evento pasquale dà alla morte non è
teorico, non è un pensierino pio… Gesù non offre risposte ma si offre come
presenza, come custodia, come grembo del dolore che raccoglie, feconda e fa
germogliare la speranza celata dal buio dell’ignoto e irrigata dalle lacrime
amare dell’assenza. Gesù «ci invita a entrare nel cuore del Figlio che si
abbandona al Padre e a sentirci così dentro il mistero stesso della Trinità»
(90).
Allora Martini tira le
conclusioni sull’intreccio della storia e dell’eternità: «l’eternità, la vita
nuova e definitiva è già entrata, con la morte e risurrezione di Gesù, nella
mia esperienza. È da me vissuta, qui e adesso, nell’indistruttibilità dei gesti
che compio: di amore, fedeltà, perdono, amicizia, onestà, libertà responsabile»
(122).
Raddrizzando le categorie del
morire, rilegge i «Novissimi» al di là degli abusi terroristici impiantati
erroneamente nel nostro immaginario religioso. Dell’inferno ad esempio dice: «L’inferno,
in quanto possibilità radicale, evidenzia la dignità suprema della vita umana,
il valore sommo della vigilanza e la tragicità del male; proprio per questo e
in tutto questo evidenzia l’amore del Dio che, creandoci senza di noi, non ci
salverà senza di noi. Egli, infatti, che ci ha amato quando ancora eravamo
peccatori, rimarrà separato da noi solo se noi ci ostineremo nell’essere
separati da lui» (135).
Nel ricordo dell’amato
Cardinale, la lettura di queste pagine assumono – oltre alla carica inimitabile
di semplice profondità alla quale ci aveva abituato Martini – un carattere
emotivo, testimoniale e prospettico. Emotivo perché sentiamo ancora l’eco della
parola di evangelizzatore instancabile, e cosa sarebbe il vangelo se non fosse
soprattutto annuncio dell’Amore più forte della morte?! Testimoniale perché
traduce in parole udibili la fede silente con la quale il Cardinale visse il
suo transito. Prospettico perché lo sguardo che attraversa la morte è invitato
a non soffermarsi sulla «malinconia del tempo inesorabilmente passato […] figlia
dell’incredulità e madre della disperazione» ma a vivere il presente e la
storia con lo sguardo rivolto a Cristo, nostra speranza e nostra vita.