Questa #rispostalvolo non viene dalla domanda di una singola persona, ma di tante persone che mi pongono la questione sull'ira di Dio che sembra contrastare il volto di Dio manifestato in Gesù. La domanda me la pongo pure io. Siamo alle porte del giubileo della misericordia, ed è bene che ci diamo delle risposte a domande di questa portata. Qui presento un piccolo estratto dal libretto sulla misericordia Rahamim. Nelle viscere di Dio. Briciole di una teologia della misericordia.
Non è possibile
parlare della misericordia di Dio senza considerare la questione spinosa dell’ira
di Dio. Non è neppure una questione marginale tanto da considerarla un’eccezione.
Marcione, un eretico del secondo secolo dopo Cristo, rifiutò il cattivo dio
demiurgo dell’Antico Testamento che ha creato la materia e il corpo
contrapponendolo al Dio buono, il Dio di Gesù Cristo. Marcione decimò il Nuovo
Testamento eliminandone quanto riteneva residuo di giudaismo. La sua scelta
radicale non toccò solo il canone delle Scritture, ma anche la visione stessa
di Dio, del corpo, della materia e del mondo. È chiaro che la sua visione è in netta
contraddizione con la fede giudeo-cristiana nel Dio unico creatore di un mondo
buono. Nondimeno, la questione dell’ira di Dio rimane un problema serio. Come
può un Dio-misericordioso, un Dio la cui essenza è l’amore, essere invaso dall’ira?
Per gli antichi, l’ira
costituisce un moto irascibile dell’anima che accomuna l’uomo agli animali. È
un impulso che spinge sovente a commettere atti irrazionali e sproporzionati.
Naturalmente, intesa così, l’ira è indegna di Dio. Come bisogna intenderla
allora?
Heschel considera l’ira
come un aspetto del pathos divino «caratterizzato a sua volta dalla
correlazione fra amore e ira, tra misericordia e giustizia». Il grande filosofo
ebreo osserva che «finché l’ira di Dio è vista nella luce della psicologia
delle passioni invece che in quella della teologia del pathos, non sarà
possibile un’adeguata comprensione». Bisogna notare che l’ira di Dio non è come
l’ira arbitraria e fuori controllo delle divinità mitologiche, essa si
manifesta come reazione volontaria dinanzi all’ingiustizia e all’oppressione
dei poveri.
Una grande e facile
tentazione sarebbe quella di liquidare l’ira soltanto come motivo pedagogico e
allegorico. È fondamentale invece coglierne la profonda portata teologica. L’ira
di Dio nasce dal suo amore e non lo contraddice. «Non molesterai il forestiero
né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non
maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto,
io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di
spada» (Es 22,20-23). Dio sarebbe complice del male, non sarebbe amore, se
fosse indifferente dinanzi al male e all’ingiustizia. La sua ira verso il male scaturisce
dal suo rifiuto della cattiveria, sgorga dalla sua stessa bontà. Chi tace
acconsente. Dio non tace dinanzi al male.
Un’altra
caratteristica dell’ira divina è che è circoscritta e temporanea. Dio non si
compiace della sua ira, ma la vive come una «lamentazione» contro il male per
limitarlo e annientarlo. L’ira di Dio è il gemito del suo Spirito d’amore. In
questo senso, l’ira di Dio è strumentale, Dio la preannuncia proprio per non
realizzarla. «L’invito dell’ira – scrive Heschel – è un invito a cancellare l’ira».
Un grande esempio è il racconto di Giona. Il profeta è inviato dal Signore per
annunciare la distruzione di Ninive. In realtà, l’annuncio dell’ira è
finalizzato al pentimento. La realizzazione del pentimento annienta gli effetti
del male e il Signore cancella la sua ira.
Il profeta stesso
fatica a comprendere il cuore del Signore e manifesta il suo sdegno perché
sapeva dall’inizio che il Signore avrebbe perdonato ai niniviti in caso di
pentimento: «Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese?…
perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande
amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato» (Gn 4,2). Dato che la sua
profezia non si era realizzata, Giona si considerava un profeta fallito.
Esprime allora il desidera morire: «Signore, toglimi la vita, perché meglio è
per me morire che vivere». Il Signore gli dona una lezione sul suo cuore
paterno tramite la pianta di ricino cresciuta e mangiata dal verme in
pochissimo tempo. Al profeta adirato il Signore dice: «Tu hai pietà per quella
pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto
spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! E io non dovrei
avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di
centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la
sinistra, e una grande quantità di animali?» (Gn 4,10-11).
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Il Signore è «lento
all’ira», la «sua collera dura un istante», mentre «la sua bontà per tutta la
vita» (Sal 30,6). Il Salmo 136, noto come il «grande hallel», è scandito
sul ritornello: «perché il suo amore/misericordia (hesdo) è per sempre».
L’esercizio della misericordia è l’espressione della grandezza di Dio, anzi,
secondo Ireneo di Lione, «è il proprio di Dio». Dio è se stesso quando è
misericordioso. «È proprio di Dio usare misericordia: e in questo specialmente
si manifesta la sua onnipotenza» (san Tommaso). L’Antico Testamento, anche
nelle sfumature dell’ira, testimonia il primato e l’affidabilità della
misericordia del Signore.
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