La
giustificazione per Martin Lutero era l’articulus stantis vel cadentis
Ecclesiae. La sua motivazione era «perché tutti gli altri articoli della
fede sono contenuti in esso». Ma cos’era la dottrina della giustificazione? Su
quali punti Lutero si è scontrato con la Chiesa di Roma? Dopo quasi 500 anni
alla riforma protestante, dopo che la città di Roma – non senza polemiche –
abbia dedicato all’ex monaco agostianiano una piazza non tanto tempo fa, è
opportuno andare a conoscere più a fondo il punto nodale della disputa che ha
visto protagonisti Martin Lutero e il Concilio di Trento.
Il libretto Le opere e la grazia. Il dibattito sulla salvezza da Lutero al Concilio di Trento di Bernard Sesboüé offre una ricca e documentata sintesi storica e teologica
della questione. Il piccolo volume è tratto dal libro dell’autorevole gesuita Salvati
per grazia. Il dibattito sulla giustificazione dalla Riforma ai nostri giorni.
Il testo consta di tre capitoli.
Vicenda
personale
Il primo capitolo
è dedicato all’itinerario spirituale di Lutero e rintraccia la maturazione
della sua teologia della giustificazione. Il suo combattimento spirituale gli
permetterà – e contemporaneamente lo obbligherà – a cristallizzare e fissare
alcuni punti fermi: non è l’uomo a giustificarsi con le proprie opere, bensì è la
giustizia stessa di Dio che ci giustifica. Quella giustizia patita e temuta da
Lutero diventa il luogo di liberazione. Così Lutero inizierà a insistere sul
volto fiduciale della fede dando più risalto al credere in che al credere che.
In Lutero ci sono
diversi spostamenti di centri gravitazionali. Antropologicamente, egli si
mostra più pessimista della teologia dei suoi tempi considerando la
concupiscenza già un peccato. La sua dottrina del peccato originale va al di là
di una macchia che deturpa il nostro rapporto con Dio: il peccato ha corrotto
la stessa immagine di Dio in noi, privandoci del nostro stesso libero arbitrio
che diviene un miserevole servo arbitrio. In una parola, Lutero «chiude l’uomo
nella disperazione e lo costringe ad aspettarsi tutto dalla misericordia di
Dio».
Cristologicamente,
egli mostra uno sbilanciamento che passa dal Cristo che è in sé al Cristo per
me. Scrive Lutero: «che egli [Cristo] sia uomo e Dio, è un fatto che riguarda
lui stesso. Ma che egli abbia consacrato il suo ministero, che abbia effuso il
suo amore per diventare il mio salvatore e mio redentore, è qui che io trovo il
mio conforto e il mio bene… Credere in Cristo non vuol dire che Cristo è una
persona a un tempo umana e divina, il che non serve ad alcuno; significa invece
che questa persona è Cristo, vale a dire che per noi egli è uscito da Dio e
venuto nel mondo: è da un tale ufficio che egli deriva il suo appellativo».
Vicenda
pubblica
Il secondo
capitolo ripercorre l’intenso periodo di dibattiti e tentativi di
riconciliazione con la Chiesa cattolica prima del Concilio di Trento. Infatti,
tra la scomunica di Lutero, avvenuta nel 1521, e la prima riunione del Concilio
di Trento (1545), passano ventiquattro anni intensi. L’editto di Worms sembrava
mettere a tacere Lutero, ma la sua applicazione non fu uniforme e così l’ondata
dei pensieri di Lutero – dal suo ritiro a Wartburg – si estende a macchia d’olio
in Germania. E mentre vige il clima di incertezza in attesa di un concilio che
metta i punti sulle i, diverse comunità iniziano a organizzarsi sotto il
patronato di Lutero. Quando Carlo V promette al papa di mettere fine all’eresia
applicando rigorosamente l’editto di Worms, i partigiani del movimento
evangelico protestano e vengono chiamati «protestanti».
In quel tempo
viene preparata la confessione di Augsburg, essenzialmente opera di
Melantone, ma nondimeno espressione fedele del pensiero di Lutero. La
confessione (1530) insegna che diveniamo giusti non per le nostre opere ma «per
grazia, a causa di Cristo, mediante la fede, se crediamo che il Cristo ha
sofferto per noi e che, grazie a lui, il perdono dei peccati, la giustizia e la
vita eterna ci sono donati». Per questo motivo vengono considerate come «pratiche
puerili e inutili» i rosari, il culto dei santi, i pellegrinaggi, la vita
monastica, le novene, certi giorni festivi, le confraternite. Queste pratiche
vengono considerate come pretesa di conquistarsi la giustizia con le proprie
forze, piuttosto che aspettarsi la giustificazione da Dio. Viene anche ribadita
la dottrina della giustificazione per grazia con questi termini: «Chi confida
di potersi meritare la grazia con le sue opere, non solo disprezza il merito e
la grazia di Cristo, ma cerca, senza Cristo, con le sue sole forze umane, la
via verso Dio, in contraddizione con l’Evangelo».
Trento e la
giustificazione
Dopo il fallito
tentativo di riconciliazione del già tardivo Libro di Regensburg (1541),
iniziano i preparativi per il Concilio di Trento. I teologi, «tutor» del
Concilio, studiano i documenti dei riformatori e invitano i padri conciliari –
così è il caso di Reginald Pole, legato del papa – a leggere questi scritti
senza pregiudizi e a non portare come argomento: «Questo l’ha detto Lutero,
dunque è falso».
La preparazione
del decreto sulla giustificazione durò circa sette mesi, dal 21 giugno 1546 al
13 gennaio 1547. Fu il lavoro più lento di tutto il Concilio.
Vi fu nel Concilio
un «consenso spontaneo» sulla giustificazione per grazia. Il problema non
risiedeva lì, ma nei punti collaterali che bisognava tenere insieme. Il
Concilio mostra una seria intenzione di spiegarsi con Lutero e dedica una
particolare attenzione a esporre una dottrina della giustificazione. Nondimeno,
il Concilio mette in evidenza alcune lacune riscontrate nella prospettiva
luterana che possono essere riassunte nella negazione totale del libero
arbitrio; il fatto che le opere dell’uomo giustificato rimangono comunque peccati.
La dottrina emanata
dal Concilio sulla giustificazione spiegherà che quest’ultima è il passaggio o
il trasferimento del peccatore allo stato di grazia e di adozione a figli di
Dio in Cristo. Sesboüé, per spiegare la differenza con i luterani, evidenzia
una distinzione presente nella teologia cattolica fra la «redenzione oggettiva»
o l’atto compiuto da Gesù sulla croce, e la «redenzione soggettiva», più spesso
chiamata «giustificazione».
A partire da
questa differenza formale, i cattolici distinguono tra fide sola e fide
viva. La giustificazione, infatti, si compie fide viva, ovvero
attraverso una fede «che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6),
perché l’evento della salvezza è un evento integrale che coinvolge tutto l’uomo, e non solo il suo assenso intellettivo o emotivo. La fede
porta con sé la speranza e la carità. «Questo non significa affatto che nella
giustificazione s’aggiungono opere alla fede, ma che la giustificazione non è
compiuta finché la fede non diventa viva, cioè finché non è al tempo stesso
atto d’amore».