[Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore.] C’era una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

1Gv 2,12-17   Sal 95   Lc 2,36-40


«Anna di Fanuele» suonerebbe per un orecchio che conosce l’ebraico così: la tenerezza e la grazia del volto di Dio. Anna la profetessa realizza il nome di suo padre perché vede il volto umano di Dio. Il volto del Signore invisibile che tanti grandi uomini dell’Antico Testamento – ricordiamo Mosè – hanno desiderato contemplare, è adesso visibile a una vedova che fa parte dei poveri di Jhwh. È la rivoluzione dell’Incarnazione e ci vuole un cuore allenato alla dimensione spirituale come quello di Anna per poterla riconoscere. Queste figure intertestamentarie sono un grande monito per noi a non guardare all’Incarnazione di Dio con l’occhio annoiato e scontato dell’abitudine, ma a stupirci ancora oggi dell’Eterno che si è fatto bambino.