Un'antologia di scritti raccolti da Edizioni Qiqajon. Comunità di Bose
«Beati gli
operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». Le nostre orecchie
sono abituate alle beatitudini, ma a sentire bene il peso di questa beatitudine
ci accorgiamo di quanto valore abbia all’occhio di Cristo essere uomini e donne
di pace. La nostra generazione si è abituata al vedere nei pontefici gli avvocati
imperterriti della pace e del dialogo tra i popoli.
Basti pensare a
quel storico 4 ottobre 1965 quando Paolo VI, davanti alle Nazioni Unite, ha
espresso la posizione della Chiesa in piena guerra fredda: «Voi attendete da
Noi questa parola, che non può svestirsi di gravità e di solennità: non gli uni
contro gli altri, non più, non mai! A questo scopo principalmente è sorta
l'Organizzazione delle Nazioni Unite; contro la guerra e per la pace !
Ascoltate le chiare parole d'un grande scomparso, di John Kennedy, che quattro
anni or sono proclamava: "L'umanità deve porre fine alla guerra, o la
guerra porrà fine all'umanità". Non occorrono molte parole per proclamare
questo sommo fine di questa istituzione. Basta ricordare che il sangue di milioni
di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili
rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare
la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la
pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell'intera umanità!».
Ma anche ai
ripetuti e accorati appelli di Giovanni Paolo II: «Mai più la guerra»,
riecheggiati da Papa Francesco il 2 settembre 2015, alla fine dell’udienza
generale, in occasione delle celebrazioni per la conclusione del secondo guerra
mondiale. Non ultima è la dichiarazione congiunta firmata da Papa Francesco e
dal Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill, i due capi delle chiese
rivolgono questa esortazione: «Esortiamo tutti i cristiani e tutti i credenti
in Dio a pregare con fervore il provvidente Creatore del mondo perché protegga
il suo creato dalla distruzione e non permetta una nuova guerra mondiale».
Quando si fa una
guerra, non ci sono mai veri vincitori. Ognuno rimette qualcosa – chi più chi
meno – ma tutti perdiamo. Eloquenti sono le parole di sir Arthur Wellesley, I°
duca di Wellington, subito dopo la vittoria contro Napoleone a Waterloo: «Spero,
con l'aiuto di Dio di aver combattuto la mia ultima battaglia. È una brutta cosa
stare sempre a combattere… È quasi impossibile pensare alla gloria… Mi sento
uno sciagurato anche nel momento della vittoria; per questo sostengo che, dopo
una battaglia perduta, la più grande iattura umana è una battaglia vinta!».
La costruzione
della pace – come ricorda eloquentemente Giovanni Paolo II – non può avvenire
senza il perdono. Per questo motivo, il prezioso volume antologico – I cristiani di fronte alla guerra edito dalla Qiqajon, presenta una ricca
raccolta di testi raggruppati in due capitoli: il primo sul tema del rifiuto
della guerra e l’altro sul perdono fraterno. L’introduzione è stata affidata a
Jim Forest giornalista del Catholic Worker, teologo, operatore di pace,
amico e biografo di Thomas Merton.
Non violenza
La prima eco
raccolta nel primo capitolo è della Didaché: «Non provocherai divisione,
ma metterai pace tra i contendenti; giudicherai secondo giustizia, non farai
eccezione di persona nel correggere le cadute». Leggiamo in questa prima
raccolta frasi che avrebbero dovuto scandire tutta la storia del cristianesimo
(e magari avessero influenzato anche la storia e la mens di altre
religioni) come l’affermazione di Lattanzio, apologeta del terzo secolo: «La
religione va difesa non uccidendo, ma morendo; non con la crudeltà, ma con la
pazienza, non con il crimine ma con la fede».
È importante però
notare che operare la pace come fare si radica in un essere pacificato.
Così Gregorio di Nissa ci rammenta che «è operatore di pace colui che dà la pace
a un altro, e uno non la potrebbe procurare a un altro, se non l’avesse lui
stesso. Il vangelo vuole che innanzitutto sia tu ricolmo di pace, e che poi tu
la possa procurare a coloro che ne mancano».
Nell’esprimere il
desiderio di pace, i pensatori cristiani cercano di cogliere le sue coordinate,
così Tommaso d’Aquino collega la pace alla giustizia e alla carità: «La pace è
indirettamente opera della giustizia, in quanto essa ne elimina gli ostacoli.
Ma direttamente è opera di carità poiché la carità provoca la pace in virtù
della propria natura».
La pace assume,
oltre la dimensione individuale, una dimensione sociale e statale giacché
«compito normale dello stato non è fare la guerra, ma piuttosto custodire la
pace perché sia a servizio della vita e tenere così lontana la guerra».
Perdono
La pace cammina di pari passo con il perdono. Non si potrebbe trovare
pace senza vero perdono, e non si potrebbe perdonare senza un radicarsi nella
pace e nel suo perseguimento. La forza del perdono nasce dallo sguardo fisso su
Cristo. «Tu fissa il tuo sguardo su Gesù – scrive Agostino – guarda Cristo, che
ti ha donato tanti beni e ha patito tanti mali. Coloro che desiderano appartenere
al suo regno e vivere sempre con lui e sotto di lui nella felicità, amano anche
i loro nemici, fanno del bene a quelli che li odiano e pregano per coloro che
li perseguitano».
Il perdono libera il nostro cuore da forti passioni disordinate che lo
logorano: l’odio e il rancore. «Per questo ogni nostro combattimento deve
essere contro le passioni che sono in noi. Una volta espulse dal nostro cuore
con la grazia e l’aiuto di Dio, vivremo facilmente, non dico con gli uomini, ma
anche con le bestie selvagge» (Giovanni Cassiano).
Il perdono è una custodia dei frutti della santa carità cosicché «chi
con il suo zelo si è acquistato i frutti della carità non si allontana da essa
anche se dovesse soffrire innumerevoli mali» (Massimo il Confessore). Per
questo lo stesso santo ci invita alla vigilanza: «Veglia su di te, perché il
male che ti separa dal fratello non si trovi in te piuttosto che nel fratello;
e affrettati a riconciliarti con lui per non venire meno al comandamento della
carità».