Nel mistero pasquale si manifesta la mirabile giustizia misericordiosa di
Dio. Nella sua morte, Cristo realizza l’esigenza di giustizia, assumendo su di
se il male e ricapitolando in sé la creazione di Dio (cf. Ef 1,10). Gesù
abbatte i muri eretti dall’ingiustizia e dall’inimicizia per mezzo della sua
carne (cf. Ef 2,14-15). L’uomo incapace di essere giustificato con le sue
opere, viene giustificato per l’opera d’amore di Cristo. Noi che eravamo nemici
(cf. Col 1,21) adesso siamo chiamati amici (cf. Gv 15,15) perché Cristo «ci ha
riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarci
santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui» (Col 1,22). «Egli portò i
nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per
il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti»
(1Pt 2,24). Noi che ci siamo esiliati per la nostra sfiducia e ribellione,
possiamo accedere al cospetto di Dio per la fiducia e abbandono totale di
Cristo al Padre. Gesù è la nostra giustizia e giustificazione. Nella carne sua
crocifissa è giudicato il nostro peccato, ma è anche perdonato. Neanche il
nostro tradimento (tradere) ci è imputato perché il Padre ci ha
preceduti e ha dato (tradere) il Figlio per amore e il Figlio ci ha
preceduto dando (tradere) se stesso per noi. Il pane eucaristico è
memoriale di questo dono anticipato che elimina il delitto deicida con il
nutrimento del pane della vita eterna. La risurrezione, poi, strappa il libello
del giudizio perché il corpo del reato non c’è più, Cristo è risorto.
Nel mistero pasquale di morte e risurrezione vediamo il senso profondo dell’espressione
di san Tommaso: «Quando Dio opera con misericordia, non agisce contro la sua
giustizia, ma compie qualche cosa oltre i limiti della giustizia». Con la
redenzione, Cristo realizza un’opera ben più grande della creazione del cielo e
della terra. Per Tommaso, infatti, la creazione «termina in un bene mutevole»,
la giustificazione del peccatore per il dono d’amore di Cristo «termina nel
bene eterno della partecipazione di Dio».
L’incarnazione e il mistero pasquale manifestano il cuore della Trinità, un
Dio visceralmente misericordioso che eccede nel dono. Dio Padre ci dona il
Figlio, il più che necessario, l’unico necessario. Dandoci il Figlio, il Padre
ci dona le sue viscere d’amore giacché il Figlio unigenito è «nel seno del
Padre» (Gv 1,18: eỉs tòn kólpon toũ Patròs). Il Padre e il Figlio riversano lo Spirito
nel nostro cuore, Spirito di consolazione e di letizia. Se la giustizia è dare
a ognuno ciò che gli è dovuto, il Padre va oltre la giustizia perché mentre
eravamo ancora peccatori e meritevoli di condanna ci ha condonato la colpa e
dato suo Figlio. Invece di ripagarci secondo i nostri peccati, ci dona il
Figlio unico, l’Amato, che porta su di sé il nostro peccato. Dio eccede nel
dono, Dio per-dona. «Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo,
non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della
riconciliazione» (2Cor 5,19).
Parlando dell’amore versato sul Calvario, Giovanni Paolo II scrive: «La
croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull’uomo e su ciò che l’uomo –
specialmente nei momenti difficili e dolorosi – chiama il suo infelice destino.
La croce è come un tocco dell’eterno amore sulle ferite più dolorose dell’esistenza
terrena dell’uomo, è il compimento sino alla fine del programma messianico, che
Cristo formulò una volta nella sinagoga di Nazaret e ripeté poi dinanzi agli
inviati di Giovanni Battista».
Robert Cheaib
Tratto da Rahamim. Nelle viscere di Dio. Briciole di una teologia della misericordia, Tau Editrice, Todi 2015.