Testamento di
Padre Christian De Chergé, priore dell’Abbazia di Tibihrine, rapito nella notte tra il 26 e 27 marzo 1996, ucciso con altri
sei monaci trappisti in Algeria nel maggio 1996, da fondamentalisti islamici.
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Se mi capitasse
un giorno – e potrebbe essere oggi – di essere vittima del terrorismo che
sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei
che la mia comunità , la mia Chiesa, la mia famiglia, si ricordassero che la mia
vita era “donata” a Dio e a questo paese.
Che essi
accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a
questa dipartita brutale.
Che pregassero
per me: come essere trovato degno di una tale offerta?
Che sapessero
associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate
nell’indifferenza dell’anonimato.
La mia vita non
ha valore più di un’altra. Non ne ha neanche di meno. In ogni caso non ha
l’innocenza dell’infanzia.
Ho vissuto
abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel
mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento,
vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare
il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità , e nello stesso tempo
di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.
Non potrei
augurarmi una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti,
come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse
indistintamente accusato del mio assassinio.
Sarebbe pagare a
un prezzo troppo alto ciò che verrebbe chiamata, forse, la “grazia del
martirio”, doverla a un Algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dice di
agire in fedeltà a ciò che crede essere l’Islam.
So di quale
disprezzo hanno potuto essere circondati gli Algerini, globalmente presi, e
conosco anche quali caricature dell’Islam incoraggia un certo islamismo. E’
troppo facile mettersi la coscienza a posto identificando questa via religiosa
con gli integrismi dei suoi estremismi.
L’Algeria e
l’Islam, per me, sono un’altra cosa, sono un corpo e un'anima.
L’ho proclamato
abbastanza, mi sembra, in base a quanto ho visto e appreso per esperienza,
ritrovando così spesso quel filo conduttore del Vangelo appreso sulle ginocchia
di mia madre, la mia primissima Chiesa proprio in Algeria, e, già allora, nel
rispetto dei credenti musulmani.
La mia morte,
evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato
da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”.
Ma queste persone
debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante.
Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per
contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti
illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del
dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione,
giocando con le differenze.
Di questa vita
perduta, totalmente mia e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra
averla voluta tutta intera per questa gioia, attraverso e nonostante tutto.
In questo
“grazie” in cui tutto è detto, ormai della mia vita, includo certamente voi,
amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, insieme a mio padre e a mia
madre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e a loro, centuplo regalato come
promesso!
E anche te, amico
dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te
voglio questo “grazie”, e questo “a-Dio” nel cui volto ti contemplo.
E che ci sia dato
di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di
tutti e due.
Amen! Inch’Allah.
Algeri, 1° dicembre 1993
Tibihrine, 1° gennaio 1994