Premessa...
Probabilmente la
lettura riduttiva più diffusa del vangelo è quella moralizzante. La scelta del
suffisso “ante” è per evidenziare una negatività non legata alla lettura morale
della Bibbia, ma alla riduzione di tutta la potenza globale del vangelo a un moralismo,
spesso da quattro spicci. Evitiamo qui di allargarci sull’opzione di pessimo
gusto consistente in un moralismo proiettato piuttosto che tratto dalla Pagina
Sacra.
I Padri antichi
vedevano nella pagina sacra un messaggio ricco e integrale che si riassumeva
per alcuni in tre sensi, per altri in quattro. Tale visione è stata riassunta
nel celebre distico di Nicola di Lyre: «La lettera insegna quanto è avvenuto, /
l’allegoria quello che devi credere, / la morale quello che devi fare / l’anagogia
il fine a cui devi tendere». (Littera gesta docet, / quid credas
allegoria, / moralis quid agas, / quo tendas anagogia).
Gli ultimi due
secoli sono stati arricchiti da un massiccio sviluppo della sensibilità e della
scienza psicologica/psicanalitica. Si potrebbe pensare che sia giunto il
momento di integrare – almeno nella lettura esistenziale della Scrittura – la
dimensione psicologica, dato il rapporto vitale e cruciale che intercorre tra
piscologica e fede. Tale attenzione non è una “moda” estranea alla Scrittura.
La Bibbia bada all’uomo e si rivolge all’uomo in tutta la sua integralità e per
restituirgli la sua integrità. Da qui l’importanza e l’attualità del libro di
Simone Pacot, L’evangelizzazione del profondo, giunto alla sua settimana
edizione nella traduzione italiana della Queriniana.
Tra anima e
spirito
L’autrice,
animatrice di vecchia data delle sessione sull’evangelizzazione del profondo
tenute dall’équipe dell’Associazione Bethasda, è convinta che è inutile
lavorare sui sintomi quando l’epicentro dei problemi è altrove. In altri
termini, non si possono risolvere alcune irregolarità dalla vita semplicemente
contrastando il sintomo piuttosto che andare a capire la motivazione che lo
porta a galla.
La lettura della
Bibbia che distingue l’approccio di Pacot punta a far giungere la parola di
Cristo alle «nostre pulsioni più profonde, le nostre difficoltà più sepolte e
più acute, i nostri istinti di morte, di distruzione e di autodistruzione».
Ciò che blocca la
nostra fede, infatti, non è solo di natura teologica, ma tante volte – e molto
più spesso – è di natura psichica perché «viviamo circondati e bardati da
difese. Le quali non sono cattive, tutt’altro. È bene proteggersi. Ma è
essenziale uscire a poco a poco dalla diffidenza da noi stessi e accogliere i
nostri primi movimenti come preziose fonti di informazione. Osare, infine,
presentarci a Dio così come siamo, senza timore alcuno e in completa fiducia».
Guarigione
dell’immagine di Dio
Il cammino
proposto da Pacot cerca con introspezione e ascolto della parola di Dio a
rimuovere gli ostacoli che intralciano l’ingresso della luce del vangelo nella
nostra interiorità attraverso l’identificazione degli archetipi che per noi
sostituiscono l’immagine di Dio o la correzione delle immagini sbagliate che
abbiamo di Dio (tipo un Dio che vuole la sofferenza per l’uomo) mentre,
come afferma Xavier Thévenot: «La sofferenza non è un alleato per Dio, ma un
avversario». Così come l’idea che è la sofferenza a redimerci, mentre in realtà
è l’amore di Dio – che ci ha amati fino ad accettare la sofferenza – ci redime.
Si nota così che il cammino di risanamento percorre due binari interdipendenti:
quello riflessivo e quello affettivo. D’altronde è inevitabile che le false
nozioni su Dio pervertano anche i sentimenti che possiamo avere nei suoi
confronti.
Anche la «morte»
che siamo chiamati a morire va compresa. «Se il chicco di grano caduto in terra
non muore, resta solo. Ma se muore porta molto frutto». Morte non è distruzione.
Se sbagliamo o fraintendiamo la morte, rischiamo di far morire ciò che deve
vivere in noi e di lasciar vivere, invece, ciò che dovrebbe morire ed essere
trasformato.
… e di se
stessi
Ma gli ostacoli,
non sono solo ostacoli teologici, sono ostacoli che riguardano la nostra
umanità. È essenziale, infatti, rinunciare all’immagine idealizzata di noi
stessi che abbiamo creato nel tempo, la quale ci cela la nostra verità. È difficile
essere semplicemente se stessi. Viviamo con le maschere anche quando siamo
soli. E confondiamo la perfezione del vangelo con il perfezionismo. Accettare
se stessi e i propri limiti è imparare da Cristo come vivere i fallimenti, le
delusioni e come rimettersi in cammino dopo un tradimento, un abbandono, un
grave fallimento, come convivere con un handicap, una sofferenza o una
malattia.
Nel riconoscere
il proprio limite, l’uomo rinuncia al mito dell’onnipotenza che viene messo in
atto in due modi: o negando Dio o sostituendosi a Dio. Riconoscendo la nostra
povertà, invece, ci disponiamo ad aprirci alla voce di colui che ci tocca,
tocca la nostra cecità, la nostra sordità e il nostro mutismo e pronuncia la
parola ricreatirce: effatà, apriti… alzati e risplendi.