Se l’homo sapiens è homo religiosus, lo è essenzialmente in quanto homo liturgicus. La nostra religiosità, infatti, si esprime non tanto con le idee su Dio, quanto nel nostro relazionarci a lui nella preghiera (e il “nostro” non è qui un plurale maestatis, ma accentuazione della dimensione societaria o, meglio, comunitaria della fede). La liturgia è stata da sempre il respiro vissuto della fede, lo spazio dove il memoriale si fa presente e presenza reale. Legem credenti statuit lex orandi. La legge della preghiera comunitaria costituisce e custodisce la legge della fede. La crucialità dell’esperienza liturgica non permette leggerezza riformativa. Le opzioni poste dinanzi al vivere liturgico non sono gli estremi di rivoluzione o di fossilizzazione. Secondo Walter Kasper, nell’ultimo libro edito dalla Queriniana, La liturgia della Chiesa, il cammino giusto consiste in un «rinnovamento a partire dallo spirito della liturgia e dalla sua tradizione che è una tradizione viva». Solo un tale rinnovamento, spinto dal radicamento nel passato e dalla radicale protensione escatologica, porterà al necessario rinnovamento della liturgia della chiesa.
Il libro di
Kasper si inserisce come coronamento della trilogia (o meglio tetralogia) dogmatica
dedicata alla Trinità, alla cristologia e all’ecclesiologia, rispettivamente
nei volumi: Il Dio di Gesù Cristo, Gesù il Cristo e nei due
volumi Chiesa Cattolica e la Chiesa di Gesù Cristo. Il mistero
esaminato è guardato in questo volume dalla prospettiva adorante e orante. Il
volume in realtà si divide in due parti. Una prima dedicata ad alcuni aspetti e
problematiche della teologia della liturgia e una seconda parte dedicata ai sacramenti
ai quali il teologo dedica una riflessione di tipo fondativo antropologico, per
esaminare successivamente quattro sacramenti: battesimo, eucaristia, penitenza
e matrimonio.
Uno dei temi
sviluppati da Kasper è quello dell’educazione alla celebrazione del tempo che
può apportarci il rinnovamento liturgico. Egli constata la secolarizzazione
della nostra concezione del tempo a partire da un dato apparentemente
insignificante, ma vero e diffuso: la domenica non è più il primo giorno della
settimana, ma è l’ultimo, il weekend. La domenica, inoltre, non è più un
giorno di riposo – giacché non riposiamo più in Dio – ma un giorno di recupero,
dove si fa la spesa che non si riesce a fare gli altri giorni della settimana.
Le cattedrali, ora, sono i centro commerciali (o gli stadi). Non a caso, si
diffonde nei nostri tempi un fenomeno in crescita nota come «lo stress da tempo
libero». Lo stress è dovuto al non-shabat, al non-vero-riposo, ma anche
perché «è venuta meno la beatitudine di un ordine precostituito, con il quale
si entra in sintonia e nel quale ci si sente protetti».
Gli stili attuali della nostra vita non hanno imposto soltanto un
estraniamento tra l’uomo e la creazione, tecnicizzando tanti aspetti di per sé
naturali e “bio” della nostra vita, ma ha anche creato un fossato nella nostra
capacità simbolica che si esprimeva anche nella simbolica liturgica. I ritmi
liturgici, come “attività del popolo” ci sono necessari per superare l’aritmia
della nostra esistenza, soffocato dal ritmo in continua accelerazione del
consumo senza finalità vera che se stesso e l’illusione di felicità ad esso
allegata.
Abbiamo bisogno di un nuovo esodo, simile a quello di Mosè la cui
trattativa con il faraone non era per una libertà politica, ma una trattiva di
libertà di culto o di libertà religiosa. Israele voleva uscire per poter
adorare liberamente il suo Dio sull’Oreb. Si tratta quindi della libertà di
rendere culto a Dio, di riposare in Colui che è il riposo di se stesso e il
nostro vero riposo. «Quoniam
tua quies Tu ipses es». Ciò che ci opprime non è necessariamente un faraone
esterno, ma uno stile di vita che – come il faraone – non teme più Dio amandolo
e adorandolo, e per questo è schiacciato perennemente da mille timori, paure e
fobie, prima tra cui il timore del domani che risucchia la linfa e la grazia
dell’oggi.