Per
Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e
i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande
misericordia, e si rallegravano con lei.
Otto
giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il
nome di suo padre, Zaccarìa. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà
Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con
questo nome».
Allora
domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una
tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati.
All’istante si aprirono la sua bocca e la sua lingua, e parlava benedicendo
Dio.
Tutti
i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della
Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le
custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la
mano del Signore era con lui.
Il
bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino
al giorno della sua manifestazione a Israele.
Is
49,1-6 Sal 138 At 13,22-26
Lc 1,57-66.80
Riconoscere
la tenerezza di Dio scioglie la lingua ammutolita di Zaccaria, del ministro del
sacro. Giovanni – dal nome in ebraico – è la «tenerezza del Signore» ma anche
«l’inchinarsi del Signore». E a chi è habitué del sacro è necessaria una
sosta di silenzio per ricordare il Signore (questo può
significare il nome Zaccaria) nella sua realtà, nella sua essenza e non in
quello che l’abitudine, anche religiosa, lo rilega. Incontrare di nuovo questa
freschezza del Dio vivo e vero sa di nascita, sa di gioia, sa di sorpresa: «Che
sarà mai questo bambino?», che sarà mai della mia e della tua vita se ci
apriamo alla «tenerezza di Dio»?