Filosofia e teologia possono camminare mano nella mano? O sono destinate a un braccio di ferro fino alla fine dei tempi? John Caputo è uno dei filosofi nordamericani che dedica particolare attenzione al rapporto tra filosofia e teologia al di là del pregiudizio illuministico (e non solo) dell’incompatibilità tra le due e che cerca di far valere più la prima ipotesi, cercando di superare dall’interno «la guerra intestina» per il predominio sul territorio della ragione. Nel suo libro, Filosofia e teologia, Caputo analizza in 8 capitoli il rapporto tra le due discipline partendo da un’osservazione che accomuna filosofi e teologi.
Per Caputo, filosofi e teologi sono «tipi un po’ instabili, gente che è stata colpita in profondità» dagli interrogativi fondamentali dell’esistenza. In questo senso Caputo rifiuta l’ipotesi di Martin Heidegger di considerare l’idea di una filosofia cristiana come «un cerchio quadrato». Heidegger, infatti, pensava che essere credente è decidere in anticipo di non essere un pensatore. È credere di avere già le risposte agli interrogativi dell’esistenza. È partire già con le risposte alle quali si aggiungono solo le prove per confermare ciò che è stato già aprioristicamente assunto.
Caputo ripercorre la storia del pensiero mostrando il punto di esasperazione della presunta irriconciliabilità tra filosofia e teologia all’illuminismo e alla famosa risposta di I. Kant all’interrogativo «Che cos’è l’illuminismo?». Ritornando a esempi splendidi di integrazione tra pensiero e filosofico e teologico, Caputo mostra che la teologia non ha costituito uno stato di minorità della ragione.



L’A. vede nella postmodernità un’occasione proficua per una possibile convergenza e riconciliazione tra filosofia e teologia. Egli parte dall’analogia nietzschiana della morte di Dio dove la ragione illuminista stava portando la religione su un carro funebre. «Sulla strada del funerale è successa però una cosa buffa. Le ruote del carro dell’Illuminismo sono uscite dall’asse». Sono crollate le certezze del positivismo e dell’illuminismo. La postmodernità non è riuscita a stare nei panni stretti della Verstand, dell’intelletto astratto, non ha potuto accontentarsi di una ragione puramente matematica.
Caputo osserva che «se la tendenza principale della modernità spingeva verso la secolarizzazione, è inevitabile che quello che è chiamato postmoderno offra un’apertura a ciò che è postsecolare» (77). Egli paragona la situazione della teologia in questo contesto a quella del XIII secolo, a un periodo di rinascita simile a quella aristotelica dell’Europa occidentale. D’altronde la teologia non è mai nata in un contesto asettico. «Le teologie nascono in un certo tempo, in una cultura e in un linguaggio determinati e, nel bene e nel male, si trovano sotto l’influenza della filosofia e della cultura di quel tempo» (78). Il postmoderno pone la teologia dinanzi a una condizione di sfiducia metafisica (nonché verso le meta-narrazioni) dove «il punto di vista di Dio è riservato a Dio, mentre la condizione umana è immersa nella molteplicità delle prospettive» (86).

Confessioni e Circonfessione
In questa situazione opportuna ma frammentaria, Caputo avanza le sue tesi di cui presentiamo solo una, la terza nella quale presenta un’approssimazione tra il personalismo di Agostino e l’agnosticismo ateo di Jacques Derrida.
Per l’A., Agostino rappresenta una possibilità più interessante di Tommaso d’Aquino per la teologia postmoderna in quanto ha «un’idea meno rigida del rapporto tra fede e ragione» (99). L’Ipponate era convinto che «la sua fede fosse l’unico modo con cui arrivare a comprendere quello che gli stava succedendo nella vita».
Caputo legge la Circonfessione di Derrida sulla falsariga delle Confessioni di Agostino. Mentre è chiaro che Agostino parli a Dio nelle Confessioni, la domanda che rimane sospesa è: a chi si rivolge Derrida? A se stesso? La risposta dell’A. è «No, se sta scrivendo, visto che (per definizione) non esiste una scrittura privata» (102).
Caputo argomenta che neppure lo stesso Derrida si definisce semplicemente ateo. Invece di dire: «sono un ateo», Derrida infatti scrive: «Quantunque io passi a giusto titolo per ateo…» (Circonfessione 143). Egli continua il gioco del mettersi in gioco, non chiude il cerchio, spezza il catenaccio del positivismo ottocentesco che egli stesso descrisse una volta dispregiativamente come «teologia atea» per il suo dogmatismo rigido e ideologico. Al contrario, Derrida è convito che l’io è «coinvolto in una specie di conflitto, in un gioco di voci dissonanti che non danno pace l’una all’altra, sicché c’è sempre un ateo in me che contesta la mia professione di fede, proprio come c’è sempre un credente in me che contesta la mia professione di incredulità» (105).
In questo modo di fare la filosofia c’è un grido, una preghiera che non sa o forse non osa ancora chiamarsi tale. Jean-Louis Chrétien, il fenomenologo cristiano, riflettendo su questo problema ha parlato di «una preghiera reale a un Dio virtuale, una preghiera effettiva, diretta a un Dio che è latente, potenziale» (cf. 106).
È la preghiera della disperazione della natura umana che si apre a Dio, l’unica speranza dell’umano: «Preghiamo a partire dalla nostra incapacità di pregare; crediamo su uno sfondo di incredulità. Talora, in quella che san Giovanni della Croce chiama “notte oscura dell’anima”, continuiamo a pregare anche se siamo pienamente convinti che nemmeno crediamo più in Dio. Allora, nel preciso momento in cui è impossibile pregare, la preghiera si fa più ardente» (107).
La preghiera fatta così, non è più una parola semplice, ma una «parola ferita». Per questo Caputo azzarda un’affermazione audace che è vera sotto certi aspetti: «la Circonfessione di Derrida è perfino più orante delle Confessioni di Agostino, perché le parole sono più ferite, più incise – circon-cisionali, circon-fessionali – e quindi perfino più confessionali, più circonfessionali, dal momento che Derrida manca della comunità e delle assicurazioni di Agostino» (110).
Caputo allora giunge alla conclusione provocatoria che la differenza tra Agostino e Derrida non è quella tra un credente e un ateo, ma tra due tipi di fede: l’una determinata e inserita in una comunità, l’altra «indeterminata, assai più smarrita e inquieta, ma non per questo meno radicata e risoluta, forse perfino, alla sua maniera, una fede più pura, una fede nella fede stessa. Quello che vediamo trasparire in Agostino e Derrida non è una semplice opposizione tra fede e incredulità, tra speranza e disperazione, bensì due tipi di dispiegamento di quello che l’autore della Lettera agli Ebrei ha chiamato “fondamento (hypóstasis, “sostanza”) di ciò che si spera, prova di ciò che non si vede” (11,1)» (111).
Teologia e filosofia sono alleati, sono il grido di una coscienza che si riconosce smarrita e per questo si mette alla ricerca. Entrambe ci elevano «al di sopra della monotonia dell’indifferenza e della mediocrità» aprendoci a un amore che va al di là di noi stessi.