La forza iniziale del messaggio cristiano agli albori dell’era cristiana era quella di Gesù Risorto forza e motivo di ripresa, di superamento del fallimento, di rinnovamento, di pienezza della vita. Espressione, insomma, del «Dio vivente» che dona vita in abbondanza. A questo volto di Dio si dedica il volume del teologo Jürgen Moltmann, Il Dio vivente e la pienezza della vita edito dalla Queriniana.
Il volume che raccoglie diversi interventi dell’autore di Teologia della speranza prosegue lo sforzo iniziato dal teologo nel 1991 con il suo Lo Spirito della vita. Per una pneumatologia integrale e completato nel 1997 con La fonte della vita. Lo Spirito Santo e la teologia della vita.
Il volume si divide fondamentalmente in due parti. La prima cerca di offrirsi come cassa di risonanza della potenza del messaggio biblico che è stato soffocato da una accoglienza acritica delle categorie della metafisica greca e dall’illuminismo. La seconda parte cerca di rintracciare l’eco della rivoluzione della visione biblica sul Dio vivente nelle varie dimensioni della vita umana e della prassi cristiana nelle varie dimensioni della vita.




La trapola dell'immutabilitas

In questa #lettura rintracciamo alcuni tratti salienti della prima parte della riflessione di Moltmann.
L’A. constata che il motore immobile fu determinante per la metafisica cristiana segnando fino ad oggi la riflessione sugli attributi di Dio dando un’aura di indiscutibilità ad attributi come l’immutabilitas e l’impassibilitas. Ma c’è da chiedersi: «Una divinità di Dio così intesa è identica al “Dio vivente” dell’Antico e del Nuovo Testamento?». 

La risposta di Moltmann è negativa: «No. Il “Dio vivente” non è innamorato di se stesso. Piuttosto egli esce da sé e ama le sue creature. L’amore di Dio per le sue creature è la prima cosa, l’amore di Dio delle creature è la seconda. Come si diceva in passato: “Il Dio che ama gli uomini rende gli uomini amanti di Dio”. All’esperienza biblica di Dio corrisponderebbe di più un motore che muove se stesso piuttosto che un “motore immoto”».

Questo non implica scartare l’attributo di immutabilitas. Immutabilità è un’espressione comparativa. Dio non è esposto, come le creature corruttibili, ad degrado operato da fattori esterni. Non si fonda nell’altro, ma in se stesso. Ma questa immutabilità che si applica alla sostanza divina, non è applicabile all’ipostasi, alla personalità, divina. Applicare alle ipostasi in Dio l’attributo dell’immutabilitas è privare Dio della sua personalità e della sua libertà. È imprigionare Dio nei limiti di un determinismo eterno, è privare Dio della sua vitalità e della sua iniziativa. 

Dio è senza inizio, ma non senza iniziativa. Un dio così sarebbe pari al sasso e a tutte le cose inanimate. «Il Dio vivo invece è libero di muoversi e di mutarsi. Dio può uscire da sé creando e può tornare al suo riposo del sabato. Non è genericamente un “Dio mobile”, che viene mosso da forze estranee o – come accadeva per gli dèi greci – dai suoi umori, ma è un Dio che si muove».

«Ho osservato la miseria del mio popolo… e ho udito il suo grido… conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo» (Es 3,7). Queste parole di Dio a Mosè nel libro dell’Esodo, dell’evento che è alla base della storia di Israele, ma anche alla base della storia di tanti credenti nel Dio di Israele, ci manifesta che il Dio vivente non è il motore immobile, ma è il motore della storia che si muove e si commuove, che non è indifferente, ma che fa la differenza. Scrive Moltmann: «La discesa di Dio per la liberazione del suo popolo è mossa dalla sua compassione e la sua compassione è mossa dalle sofferenze del suo popolo».

Dio è anche mosso dalla preghiera del suo fedele e del popolo. L’orante richiama Dio, anzi, alza il grido al suo Signore «Svegliati» (Sal 44,24).

Aristotele ha formulato nella sua Metafisica l’assioma dell’apatheia divina, ma incatenare Dio nell’immutabilitas per paura di antropomorfismo ci fa dimenticare che tra Dio e l’uomo c’è una prossimità più grande di quanto osiamo immaginare. «Se tutte queste azioni e passioni di Dio sono ridotte ad antropomorfismi e sono ritenute non adeguate alla divinità, non si prende sul serio il fatto che il soggetto umano è a immagine di Dio. L’immutabilitas è una metafora non umana. […] Con la semplice negazione degli attributi del mondo non si coglie il divino, ma il nulla».

L’assioma dell’apátheia, allora, va ricompreso alla luce della automanifestazione di Dio nella storia. Nella sua connotazione classica, apátheia significava: in senso fisico, immutabilità; in senso psichico, insensibilità; in senso etico, libertà. «Il divino non ha bisogni e non è esposto a bassi istinti (páthe). Il divino non conosce né odio né amore, né ira né compassione. Il modo di essere conforme a Dio deve consistere nella sua imperturbabilità (àtaraxía). Egli è privo di necessità e impassibile».

Impassibile ma compassionevole

La differenza qualitativa tra l’immutabilità dell’essenza divina e la sua capacità di commuoversi è stata genialmente espressa da san Bernardo: «Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis». È la «com-passione» di Dio che ha spinto il grande filosofo Abraham Joschua Heschel a formulare la differenza tra passioni e pathos di Dio. Per lui l’opposto dell’amore di Dio non è l’ira, ma l’apatia e l’indifferenza.


su questo tema

Questa riflessione apre la porta alla sofferenza di Dio perché – come scrive Bonhoeffer dal carcere nel 1944 – «Solo il Dio sofferente può compatire». E non c’è un orizzonte più eloquente del mistero pasquale che parla di questo Dio che soffre e sa compatire: «Nel dolore del Padre, nella sofferenza del Figlio e nella passione dello Spirito si manifesta il mistero intratrinitario del sacrificio di Dio per la redenzione del mondo».

Per riallacciarci al tema del libro, il cristianesimo, proprio nel suo coraggio di affrontare la sofferenza, mostra una via che va al di là del dolore e della sofferenza. L'ultima parola non è la sofferenza e la morte perché Cristo è morto, anzi di più, è risorto (Rm 8,34).