Desta stupore pensare che comprendere il
nostro essere «umani» è una delle operazioni più difficili e più a lungo
termine che la vita ci pone dinanzi. Ogni risposta saggia sa di essere
provvisoria, e la domanda che si pone spontanea è: vale la pena interrogarsi
sull’uomo?
Giovanni Ancona non ha dubbi al riguardo.
Anzi, per l’autore del testo Uomo. Appunti minimi di antropologia (n.
388 del giornale di teologia per il tipi della Queriniana) «la
provvisorietà delle risposte costituisce, paradossalmente, un incentivo alla
ricerca. Se l’uomo si arrendesse nel dire di sé non ci sarebbero l’arte, la
poesia, la letteratura, la filosofia, la politica, l’economia e quant’altro
riferisce della sua complessa ed esaltante esistenza di essere vivente».
Le nostre parole sull’uomo saranno sempre
penultime, vi è sull’uomo «una riserva escatologica» che non permette pretese
ermeneutiche assolutistiche.
Comprendere l’umano passa attraverso la
comprensione della sua concretezza e della sua attività e in questo contesto non
ci sono attività marginali. Ogni epifenomeno è correlato agli altri e vi è una
reciproca compenetrazione tra i vari fenomeni.
Nel primo capitolo, l’A. analizza alcune di
queste dimensioni qualificative ed esplicative dell’uomo. Così l’analisi
attraversa le dimensioni dell’uomo come essere che parla, che conosce e pensa,
che ama, che lavora, che soffre e muore, che crede e che spera.
Traspare da questo percorso fenomenologico il
volto dell’homo loquens che, attraverso la parola, si avvia al processo
della comunicazione già dall’infanzia e, attraverso questa parola, si avvia
sempre più verso la propria maturazione. La parola qualifica la spiritualità
umana. «La vita spirituale dell’uomo – scrive F. Ebner – è intimamente e
inscindibilmente legata al linguaggio e, come questo, si fonda sul rapporto
dell’Io con il Tu. Dal fatto che la parola passa dalla “prima” alla “seconda
persona”, deve muovere ogni tentativo di fondare il linguaggio in riferimento
alla sua valenza spirituale».
La parola è fecondata e feconda il pensiero
configurando la vita dell’uomo come «vita filosofica». Il pensare vero
dell’uomo ha a che fare con l’amore, con il proprio coinvolgimento personale. D’altronde,
«l’uomo è il solo capace a dare vita per le proprie idee». Parlando d’amore, esso
– come scrive simpaticamente Jerome Klapka Jerome – «è come il morbillo:
dobbiamo passarci tutti». L’A. nota che «l’uomo è un essere che ama e che
desidera essere amato, per sempre. Immaginare un uomo senza amore è
impossibile».
Anche il lavoro qualifica l’umano, esso non
mira soltanto al sostentamento, ma alla trasformazione del proprio mondo e di
se stessi. L’uomo lavorando, lavora la propria persona e il proprio mondo.
Questo modellarsi passa per le gioie e le sofferenze della vita.
In questa corsa tra i vari colori della vita,
l’uomo sopravvive sperando perché l’uomo è essenzialmente «un essere che spera,
perché ama e crede in questo tracciato di bene coinvolgente e universale».
Prospettive antropologiche contemporanee
Il secondo capitolo considera l’uomo secondo
alcune prospettive antropologiche contemporanee. L’A. si sofferma, ad esempio,
sulla prospettiva di A. Gehlen che considera l’uomo a partire dalla sua
apertura al mondo. L’uomo è un progetto incompiuto, un homo viator,
posto nel mondo come umano incompiuto da umanizzare e completare. Nietzsche,
infatti, ne parlava così: l’uomo è «un animale ancora non definito».
Questo farsi dell’uomo passa attraverso la téchne.
È questa la prosettiva di U. Galimberti che vede nella tecnica l’essenza
dell’uomo. La tecnica è l’ambiente dell’umano, è ciò che avviluppa e accompagna
lo sviluppo dell’uomo con criteri di funzionalità e di efficienza.
Un ulteriore prospettiva è quella di K. Rahner
che guarda l’uomo come l’essere della trascendenza. L’essere umano è posto
dinanzi a se stesso, dinanzi all’orizzonte infinito che scopre guardando la
propria esistenza, le proprie aspirazioni. Scrive Rahner: «Quando abbiamo detto
tutto quello che di noi si può dire, perché calcolabile e definibile, non
abbiamo detto ancora nulla di noi, a meno che in ciò che è stato detto non
abbiamo detto implicitamente di essere coloro che sono orientati al Dio
incomprensibile».
Lo spazio interpretativo dell’uomo è
l’assoluto, è l’infinito, non spaziale o impersonale, ma Dio stesso, il
personalissimo.
Il terzo capitolo parla dell’uomo e della
riuscita della vita, ovvero, della questione del senso dell’esistenza. L’A.
parte dall’analisi di S. Natoli dell’«etica del finito», ove si parla della
prospettiva neopagana che rinchiude il significato dell’esistenza nella stretta
strettoia dell’immanente e del presente. Tale morale è una morale
dell’immanenza che abbraccia senza interrogativi l’inconsistenza
dell’esistenza, la bontà della terra e la naturalità della morte. In un’altra
prospettiva, si sviluppa la versione dell’ateismo (militante?) di Flores
d’Arcais che qualifica la ricerca di senso religioso in questi termini: «il
delirante desiderio di senso che alimenta la religione» mentre l’ateismo punta
a riconciliarsi con «l’infelicità ordinaria» della vita.
Il distintivo cristiano
L’ultimo paradigma analizzato nel terzo
capitolo è quello cristiano. Già la sua apertura, affidata a una citazione di
J. Moltmann manifesta il tono che l’A. sceglie: «Non si è uomini per diventare
cristiani, ma si diventa cristiani per essere uomini». Per Ancona, il paradigma
cristiano non è uno fra i tanti a disposizione nell’universo culturale, poiché
esso è comprensibile solo dall’alto, dalla e nella prospettiva di Dio. Il
paradigma antropologico cristiano si vive nella logica della fede fatta del
doppio registro di chiamata-risposta e dono-accoglienza.
Un altro tratto caratteristico della sequela
di Cristo è che essa «non esclude nulla di quanto è proprio dell’umano, della
sua storia, del suo mondo; essa non umilia, non priva gli umani delle loro
possibilità di vivere, della loro libera determinazione per gli affetti, le
cose, i progetti. La fede, invece, esalta l’umano, perché svela la
sollecitudine di Dio per le sue creature, la sua forza liberante, che distrugge
gli ostacoli che impediscono la realizzazione di ogni uomo, la sua potenza
sanante, che trasforma le angosce e il dolore, la sua bontà che accoglie,
libera, purifica quanto è nell’uomo, perché questi possa giungere al compimento
del suo essere persona».