Non ogni fallimento è fallimentare, alcuni sono sentieri di autenticità, di presa di coscienza e di ripresa della realtà. A volte solo cadendo e perdendo ritroviamo il nostro vero posto e guadagniamo la giusta prospettiva per camminare. Perché nel cammino, oltre alla portata importa anche la compagnia e il portamento.
È quanto propone Luigi Maria Epicoco nella sua meditazione esistenziale e spirituale dell’episodio dei discepoli di Emmaus, narrato nel vangelo di Luca, in un libro dal titolo evocativo e provocativo: Solo i malati guariscono. L'umano del (non) credente.
Il libro, che ripercorre l’esperienza dei due discepoli, è intriso anche di esperienze personali dell’autore, nonché di alcuni suoi interlocutori. Spicca, a mio avviso, sia in sé, sia per la sua consonanza con il recente sisma di Amatrice, la corrispondenza con il giovane che sotto tra le macerie dell’Aquila (2009), a cui sopravvive grazie al gesto eroico del padre, ritrova la chiave della matassa per ricomporre la sua vita, (de)-costruita precedentemente da un odio viscerale per la figura paterna.
Epicoco è concretissimo nel suo testo e già verso l’inizio esordia così: «Le esperienze sono quasi sempre meglio dei concetti. Le esperienze sono verità in forma di vita. Sono spiegazioni fatte carne. Sono vita che spiega la vita. Anche i concetti servono, ma servono a ordinare, a scavare nell’esperienza, ma mai a diventare migliori di essa».
Tornando ai fallimenti e alle cadute, che possiamo presagire nei volti tristi dei due discepoli di Emmaus, Epicoco ci invita a imparare la sapienza dell’infanzia perché «per noi le cadute sono tragedie, per i bambini sono tentativi. Noi costruiamo fiumi di ragionamenti, i bambini non perdono di vista la cosa più semplice che è rialzarsi».
Cadendo a volte cadono le maschere e scopriamo il nostro vero volto di malati che hanno bisogno di guarigione, di salvezza. E spesso, solo perdendo possiamo fare spazio all’«Imprevisto», che non è caos, ma Logos.

Insiemità, o dell’amicizia

Parlare di cammino, per noi umani, non può che sposarsi con la parola amicizia, compagnia. Chi è solo vaga, è un vagabondo senza destinazione, schiacciato dal fatale destino di non arrivare mai a un incontro.
Il seme salvifico nell’esperienza dei discepoli di Emmaus e nella nostra si getta già da questo «insieme» che premette – e forse permette – l’incontro con Gesù sotto le sembianze di un viandante.
«Insieme – scrive Epicoco –
È una di quelle parole che capiamo ancora prima di saperla pronunciare.
Nasciamo già insieme.
Il grembo di nostra madre è già una relazione.
Le nostre prime esperienze di esistenza accadono con qualcuno, anzi dentro qualcuno».


I due discepoli e, spesso, anche noi come loro, hanno perso tanto, sono disorientati, ma sono ancora insieme, hanno ancora una comunione che protegge lo spazio della Comunione. «Non hanno più nessuna certezza questi due discepoli, ma sono insieme e questo conta moltissimo». Sono rimasti umani. D’altronde la nostra umanità è custodita dalla capacità di dirsi “tu” per un altro e di dare del “tu” a un altro.
«È l’assenza di amicizia che a volte rende insopportabile la vita. Non è né il dolore, né il male a rendere la vita invivibile, ma l’assenza di amici».

Cor inquietum

Un altro tratto che fa spazio all’incontro con il Risorto è l’inquietudine del cuore. L’A. non ha dubbi che il vero problema non è perdere la fede, ma perdere il cuore. È l’indurimento del cuore che sbarra la strada all’incontro con Cristo. «Guai spegnere l’inquietudine perché spegneremmo la fiaccola della vita stessa, ciò che la riscalda, ciò che la conduce».
Non bisogna, in altri termini, avere paura delle domande, ma della mancanza di domande. Una domanda, naturalmente, «è l’infinito bisogno della risposta, e non il gusto macabro di smontare ogni cosa per lasciare tutto frantumato».
Un altro nome dell’inquietudine è nostalgia. «La nostalgia non è malinconia. La nostalgia è la felicità in forma di mancanza. L’acqua in forma di sete. Il pane in forma di fame. La nostalgia è il vuoto lasciato da una pienezza, o per lo meno lo spazio vuoto che attende una pienezza».

Restare

Restare è il verbo della svolta. È il verbo che incorona il nostro cammino di nostalgia, inquietudine e rivolta contro il fallimento.
Quel Forestiero che cammina con noi nel nostro percorso via da Gerusalemme, lontano dalla possibilità di Pasqua, è lo stesso che accondiscende e si ferma. Ed è lì che nasce l’Eucaristia: tra il nostro “Resta con noi” e “Lui che si ferma sul serio”.

È lì, in quel restare, che è l’infinito del verbo amare, che i discepoli riconoscono Gesù nello spezzare il pane. Ed è preziosa l’annotazione dell’A. che segnala che i discepoli riconoscono Gesù nel pane spezzato, perché lui si fa compagno accondiscendente della loro disfatta. Nel pane spezzato comprendono che quello che sta accadendo davanti a loro li riguarda, è la vita del Forestiero che è più intimo a noi di noi stessi che sposa la nostra vita. Si spezza per raccogliere i nostri cocci, per ricomporci, per essere nostra guarigione. D’altronde, solo i malati guariscono.