Dobbiamo essere attenti quando parliamo di Dio, quando diciamo che Dio ha voluto, Dio ha fatto, ecc. Tante volte le nostre parole sono parole a sproposito, parole dissacranti, pressoché blasfeme. È con tatto profetico che David Maria Turoldo affronta queste questioni teologiche. E il libro Il fuoco di Elia profeta. Omelie 1989-1990. Testamento spirituale raccoglie i pensieri freschi e spontanei del sacerdote e poeta dell’ordine dei servi di Maria.
La lezione del Turoldo, che viene presentata mantenendo
la freschezza della comunicazione orale, provoca su temi su cui si pensa poco,
o per abitudine, o perché si è persa la forza ricreativa dello stupore. La predicazione
di Turoldo sceglie di essere autorevole e non autoritaria perché «più sei autorevole,
meno sei autoritario». Egli ricorda che ha sempre cercato di predicare parlando
a se stesso, per riformare la sua vita.
«Sapete – si chiede Turoldo – qual è una delle
più grandi tristezze del mio tempo, una tristezza che porto anche adesso qui
con me? Io ho una paura che ormai è un mondo che non sa più stupirsi di nulla,
noi abbiamo perso la facoltà di meravigliarci, il dono di stupirci. Di che cosa
vi stupite? Di niente! Difatti cade tutto nell’indifferenza. Io vorrei che
aveste questo senso dello stupore perché, quando uno ha il senso dello stupore,
ha il senso del mistero, ha il bisogno della conoscenza e della scoperta. Ha il
senso che la vita è senza limiti e le dimensioni sono impensabili. Vi auguro il
dono di stupirvi, perché fin quando sarete in gradi di stupirvi non vi
annoierete mai e scoprirete sempre qualcosa, qualcosa di nuovo, di grande».
Lo stupore ci inserisce nel nostro tempo,
nella nostra vita, ci dona occhi nuovi. Con un simile stupore riscopriamo il
valore e il senso della preghiera. Ecco, infatti, i tre momenti solenni della
vita dell’uomo: «il silenzio, il canto – o, se volete, l’alta poesia – e la
preghiera. Sono i tre momenti in cui si tocca l’eterno. E questo della
preghiera è uno, magari intrecciato del canto e del silenzio. Questo vuol dire
essere qui a pregare».
E perché preghiamo? «Quando diciamo: ricordati
di questo, ricordati di quell’altro portiamo tutto il peso del mondo. Ma vuol
dire anche non tanto chiedere a Lui, quanto prendere noi coscienza, questo è il
punto. Perché io so che lui sa, ma siamo noi che dobbiamo prendere coscienza!
Perché la preghiera non serve a Dio, serve a noi. La festa non è fatta per
Iddio, è fatta per noi. I Comandamenti non sono mica fatti per Iddio,
sono per noi».
La preghiera, spiega Turoldo, è «caricarsi
delle energie di Dio». Pregare è anche partecipare alla sorte di coloro per cui
preghiamo. Pregare, allora non è solo muovere le labbra, ma anche muovere le
mani, impegnarsi per la giustizia. «Chi non fa giustizia non è degno di cantare
il gregoriano» (Bonhoeffer).
L’invito della predicazione di Turoldo è
quello di superare il torpore della civiltà dell’immagine, verso «la civiltà
della realtà». Lo strumentario per questo risveglio è assumere una «simbologia
efficace» che non prende l’uomo come un dato, ma come «un’infinita possibilità»,
come realizzazione dell’umanità che è il sogno di Dio. Qui sta il vero
progresso, il vero benessere. Quell’essere bene «non sta nei possedimenti o nei
libri o nelle cariche; sta in questa umanità realizzata giorno per giorno. […].
Questa è la ragione della vita, tanto più la ragione del credere e del pregare.
Chiedere a Dio di realizzare continuamente la propria umanità. E Cristo è
questo modello di umanità di cui oggi debbo parlare. E là dove c’è questa
pienezza di umanità, e soltanto là, c’è la rivelazione di Dio».