«Hai la vocazione? Quando l’hai sentita?».
Dietro queste due semplici e ingenue domande si nascondono dei fraintendimenti rispetto
a una questione che, specie in ambito cattolico, acquisisce un’importanza e una
natura tutta sua.
Riguardo all’avere vocazione, Christoph
Theobald segnala che forse ci si dimentica che essa ha piuttosto molto a che
fare con l’agire. Oltre che, teologicamente e strettamente parlando,
nessuno è senza vocazione.
Riguardo al quando si dimentica che la
vocazione non è un momento, ma è il cammino continuo di tutta una vita.
Il libro di Matteo Ferrari – Verso la terra che ti indicherò. La vocazione come risposta alla parola di Dio, Città
Nuova, Roma 2016 / 139 pp. €14.00 – tratta proprio del tema della vocazione
declinando questa «parola per la nostra vita» in un primo momento con le Sacre
Scritture, attraverso un confronto con la teologia biblica della creazione come
vocazione, passando per due vocazioni paradigmatiche – Abramo e Mosè – per poi
analizzare la vocazione come sequela nel contatto di Gesù con i primi
discepoli. Il libro prosegue analizzando gli elementi del discernimento in ascolto
della Regola di san Benedetto, per poi passare a una riflessione che inserisce
il tema vocazionale all’interno del cammino sacramentale della chiesa.
Un parola per la vita
Nell’Introduzione, il libro smonta diverse
concezioni imprecise che riguardano la vocazione tra cui quelle evocate in
apertura a questa presentazione. Un altro luogo comune su cui riflette l’autore,
biblista e monaco benedettino camaldolese, consiste l’idea che vivere la
propria vocazione sia comprendere la propria vocazione quasi si trattasse di un
disegno predeterminato dall’alto che bisogna riprodurre con la maggiore
precisione possibile sulla terra.
Rispetto a questa visione che vede nella
vocazione una specie di arbitrio divino di un padrone che predetermina la vita dei
suoi sudditi, le Scritture ci presentano una visione diversa che «pur
salvaguardando la libertà di Dio e il suo rapporto personale con ognuno, prende
sul serio anche la libertà dell’uomo non solo nel dare o no l’assenso alla
chiamata di Dio, ma anche nel costruire insieme a lui la propria esistenza»
(8). Più che parola di Dio sulla vita dell’uomo, è parola di Dio per
la vita dell’uomo. Nella vocazione ci sono due co-protagonisti.
Più che l’esperienza di un momento congelato
nel tempo, la vocazione è un’esperienza che scoglie i nodi di un’esistenza che
si trova visitata e chiamata per nome da Dio continuamente. L’a. invita a
parlare non solo di “peccato originale”, ma anche di “vocazione originaria”.
Vocazione che si trova nella chiamata che Dio rivolge alla creazione per farla
passare dal nulla all’essere. Vocazione che si esprime nel primo capitolo di
Genesi con 10 parole che ricordano con facilità le dieci parole dell’alleanza, i
cosiddetti dieci comandamenti.
Co-autori della propria storia
La vita si riceve dal Signore, ma possiamo
dire di vivere veramente solo quando questa vita l’abbiamo accolta e fatta
nostra (33). E la vita si fa propria attraverso la trasfigurazione del proprio
roveto ardente, la capacità di vedere lo straordinario nell’ordinario (50).
Come la vocazione di Mosè, ogni vocazione
consiste in una «conversione del proprio sguardo» dove si fa proprio lo sguardo
di Dio sulla propria vita e sulla vita del mondo. «Ogni vocazione consiste
proprio in questo: assumere il medesimo sguardo di Dio sugli uomini e sulle
cose, sapendo che quello sguardo è il medesimo che si è posato su di noi» (52).
La vocazione, più che rinuncia, è una
conquista. Costa sacrifici, resistenze ed opposizioni, ma è conquista della
nostra umanità per aprirci alla chiamata della divinizzazione. I due aspetti
sono complementari. Ireneo di Lione ce lo ricorda: «Come potrai essere Dio, se
non sei ancora diventato uomo? Devi prima custodire il rango di uomo e poi
partecipare alla gloria di Dio» (Adv. Haer IV, 39, 2).
I sacramenti, in questa prospettiva sono il
nutrimento divino nella materia, sono i rivelatori dello straordinario nell’ordinario,
Dio nella materia, il tutto nel frammento.