Dopo aver meditato sulla presenza di Dio nel dolore, adesso apriamo gli occhi del cuore per guardare il dolore di Dio. Testo tratto dal libro Oltre la morte di Dio. La fede alla prova del dubbio.
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Il dolore dell’uomo diventa il dolore di Dio perché Dio stesso lo assume. Dio non salva dominando, ma patendo. Non si accanisce contro l’infierire altezzoso del male facendone il gioco, ma spezza il circolo vizioso spegnendo il male nella mitezza del suo amore che perdona e si dona amando fino alla fine.
Nell’evento-Cristo si manifesta un volto inedito di Dio: un Dio che non salva con la potenza o la prepotenza, ma con la debolezza. Mentre le religioni nascono per rivolgere alle divinità potenti l’impotenza dell’uomo, la Scrittura «rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare»[1].
Il compito del credente diventa non solo quello di compatire come Dio, bensì anche quello di patire con Dio. Si capisce, così, quello che Dietrich Bonhoeffer scrive nella poesia Cristiani e pagani: «I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza». Invece di essere persone che vanno a Dio nella loro tribolazione, sono persone che vanno a Dio nella sua tribolazione[2]. L’uomo biblico capisce che è chiamato «a condividere la sofferenza di Dio in rapporto al mondo senza Dio»[3].
La com-passione contraddistingue l’essere-nel-mondo del credente: «Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo»[4]. Con questa compassione, il cristiano «si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani»[5].
Dov’è Dio nel dolore? – è in chi vede, com-patisce e assume il dolore di Dio. In chi assume l’autonomia che Dio gli ha dato, quale creatura libera in un mondo autonomo, e trasforma quest’autonomia in alleanza, in vincolo nuziale con il suo Creatore. Giunge qui provocatoria l’intuizione di Etty Hillesum: «E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio»[6]. Quest’intuizione, annotata nel suo diario sabato 11 luglio 1942, diventerà il giorno dopo dialogo e preghiera:
Cercherò di aiutarTi affinché Tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L`unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di altri uomini. Si, mio Dio, sembra che Tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anch`esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la Tua responsabilità, più tardi sarai Tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la Tua casa in noi[7].
La risposta di Dio al problema del male e del dolore si trova nell’uomo, nel suo far spazio alla voce del silenzio di Dio, nel suo farsi spazio e casa di Dio, nella sua azione che incarna il bene di Dio, nelle sue scelte personali e nella sua passione che diventa anche compassione e azione.
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