In una società come quella attuale, si assiste al crescente fenomeno di un ateismo pratico di massa, disancorato dai valori morali cristiani in virtù di un’autonomia dell’essere umano a tratti inquietante, che nulla ha a che fare con la ricerca del senso della propria esistenza e della verità ultima.
È il tempo del relativismo culturale, dell’assolutizzazione delle proprie idee e del controllo totale della ragione sulle emozioni. L’uomo contemporaneo non è più in grado di vedere e di accettare se stesso, la sua interiorità; eppure avverte misteriosamente un senso di inconfessato disagio interiore.
La solitudine esistenziale ingigantita dal benessere del consumismo, reca in sé false giustificazioni sul reale ben-essere della persona, intenta a cercare la felicità nel possesso delle cose per evitare di vedere e di accettare le tante contraddizioni della vita.
Tu, invece vorresti fonderle in un unico insieme e in qualche modo semplificarle dentro di te, così ti semplifecheresti pure la vita. Ma il fatto è che la vita è composta di contraddizioni, che queste vanno accettate tutte come sue parti integranti, e che non si può accentuarne una a spese di un’altra. Lascia che il tutto giri e forse diventerà ancora un unico insieme.[1]

La parola chiave dell’ateismo attuale sembra allora essere la «semplificazione»? Il ridurre alla banalità anche i concetti più alti per l’abitudine al controllo della propria vita, in cui parole, gesti e situazioni vengono edulcorati in modo da soffrire il meno possibile?
Nel vocabolario, il termine «sofferenza» deriva dal latino sub-fĕro, sopportare, resistere. Nel suo intimo – in realtà – l’essere umano non è più in grado di saper «sopportare» il peso del proprio essere e si contraddice mescolandosi con la leggerezza dell’esistere.
 Siamo, dunque, di fronte ad un problema ontologico legato all’oblio delle origini genesiache, divine, dell’uomo. La ribellione alla verità del proprio essere «ad immagine e somiglianza di Dio» ha esasperato il libero arbitrio e la sua «facoltà della volontà e della ragione»[2] sempre più fuori controllo, in cui la confusione disorienta ogni decisone ed anestetizza ogni verità di senso.
Nel trionfo apparente del vuoto esistenziale dell’uomo odierno incapace all’ascolto, riprende vigore la «forza del forse» di una «dimensione intuitiva, esistenziale, biblica e contemplativa della fede che cerca la propria intelligenza»[3] nell’infanzia delle proprie convinzioni. Ritrovare la causa di ciò che le ha generate, è il coraggio del distacco per maturare la libertà di amare e di essere amati, in un desiderio autentico di Dio e degli altri che squalifica la schiavitù del bisogno.
È in questo contesto che si inserisce il libro di Cheaib Oltre la morte di Dio, che coglie la tensione di fondo dell’inquietudine umana attuale attraverso la ricerca di una spiegazione plausibile e di una soluzione alla morte di Dio nell’interiorità dell’uomo.
Il tutto, in un confronto serrato fra sacra Scrittura e psicologia, fra filosofia e teologia, evidenziando nell’antitesi fra credente e non credente il sottile confine che esiste fra fede e dubbio, nella condizione di un’inaspettata simultaneità fra i diversi atti di fede, ognuno ed entrambi «simul fidelis et infidelis»[4].



Il linguaggio espositivo fresco ed audace dell’autore, segue un susseguirsi avvincente e dinamico di paragoni sapientemente amalgamati che volentieri si prestano ad una lettura psicologica delle emozioni.
Modello per eccellenza è il legame fra Dio e Mosè, antesignano di turbamenti ed eccitazioni altalenanti che da sempre abitano l’uomo e che ben si prestano qui a descrivere le motivazioni della «notte della fede».
Nel contesto di una «creazione atea»[5] intesa come dimora creaturale e non di Dio – donata da quest’ultimo all’uomo affinché egli possa esprimere liberamente il dono divino nel governo del creato –, vi è in realtà la possibilità data all’essere umano di maturare un’esperienza di fede che trasformi la sottomissione agli istinti nella signoria su di essi, in virtù della somiglianza divina con Dio.
La grazia divina, tuttavia, rispetta la natura umana. Di conseguenza, la fede di Mosè fatta «di ombre, resistenze, arrabbiature, di dubbio e di incredulità»[6] può interessare il lettore attento in quanto lo riguarda come essere mortale provato, che proprio per questo nutre un’istintiva simpatia per l’illustre Patriarca.
Tuttavia, si potrebbe obiettare che Mosè godesse di un colloquio privilegiato con Dio, di un contatto diretto con il Suo mistero; di una parlare faccia a faccia con Lui che rendeva logica la propria fede. Mentre l’uomo di oggi, al contrario, non riesce a sentire Dio in chiesa né tantomeno attraverso i suoi consacrati, spesso vittime anche loro dell’incoerenza o del burnout.
Insomma, se vuole un contatto con Dio, l’uomo odierno pretende di non affaticarsi tanto per trovarlo; pretende un Dio fai da te, che risolva magicamente i problemi. Per cui, verbi quali «ritirarsi», «tacere», «attendere», uniti ai sostantivi «silenzio» e «deserto», sono per lui incomprensibili.
In realtà, essi sono la scomoda modalità di Dio per provare l’uomo a se stesso secondo una pedagogia divina che lo educhi a diventare adulto nella fiducia verso un Creatore che abita la voce della coscienza umana, messa sovente a tacere dal frastuono delle creature.
E così liberare l’uomo dalla prigionia in cui si è comodamente rifugiato, per fargli comprendere che si impara davvero ad amare solo se ci si dona all’altro, educandosi alle esigenze di una «ascesi, ascensione ed ascesa»[7] del desiderio volte all’accettazione dei propri limiti, per superarli con nuovi desideri.
L’autore, di conseguenza, elencando i dubbi della fede vissuti da Mosè, provoca il lettore ad uscire dal proprio vittimismo e lo invita alla riflessione di un «forse» che regala nuovi orizzonti, inchiodando l’alibi dell’incredulità di fronte alle responsabilità dell’egoismo umano.
In questa antropologia teologica, anche il dolore di Dio necessita di essere assunto dall’uomo per com-passione, per motivarlo a compiere a sua volta lo stesso zimzum divino nella volontà umana di «far spazio alla voce del silenzio di Dio»[8] e penetrarne così il mistero che giustifica la sana accoglienza del diverso da sé.
Al riguardo, Cheaib insiste sulla differenza fra la filosofica apátheia ed il pathos divino riguardo alla sofferenza di Dio, insegnando che l’uomo sperimenta con angoscia la «notte della fede» nella misura in cui si chiude alla comprensione di un Dio che si lascia coinvolgere nella sofferenza della sua creatura, e che giudica indifferente alle vicende terrene umane.
La «onnidebolezza» di Dio, secondo l’autore, diviene allora modello di «un’onnipotenza d’amore»[9] che l’uomo può accogliere solo se si arrende volontariamente all’Amore e da Lui si lascia plasmare, restituendo gratuitamente quella stessa libertà – moltiplicata in frutti – che Dio gli ha donato. Solo allora il desiderio di Dio è in grado di annientare la futile chiusura pusillanime dell’uomo di fronte al Suo progetto.
Dunque, l’esilio di Mosè rimane appetibile anche oggi per superare l’angoscia e giungere alla meraviglia esigente del saper amare, accogliendo semplicemente l’amore.
Infine, Il mistero vissuto dall’uomo del bisogno di amare e di sentirsi amati, trova la sua ragione d’essere nell’amore paterno di Dio.
L’autore invita pertanto il lettore a seguirlo nelle riflessioni conclusive legate a «Dio nel pensiero e nell’amore»[10], per informare i più scettici che Mosè – nel roveto ardente – è testimone di un Dio che si comunica in modo autentico proprio perché ha un nome che ne conferma l’esistenza e la presenza costante oggi e sempre, nell’amore colmo di pathos che crea una «religione», un legame indissolubile con l’uomo.
Da parte sua, l’essere umano corrisponde a Dio ogni volta che fa propri i sentimenti divini nel lento quotidiano. Quando l’uomo sperimenta l’amore di Dio nelle prove della vita, l’esperienza che ne deriva si trasforma in conoscenza. Da questa nasce la fede, che conduce alla necessità della condivisione affinché anche altri possano riconoscere l’amore di Dio e viverlo donandolo.
Quello che, in conclusione, l’autore ci vuole comunicare è un invito a non discriminare chi non ha fede, nella consapevolezza che anche il credente ha la sua buona dose di dubbi.
La «notte della fede» passa necessariamente per la non visione di Dio; ma ciò non vuol dire che non se ne avverta la presenza nell’intimo. È l’esperienza dei mistici: scorgere nel buio della fede l’alleato misterioso che la illumina.
Il testimone della fede, allora, è colui che è in grado di attestare concretamente l’esperienza dell’amore, contribuendo con la sua vita a «spezzare le catene dell’essere-per-la-morte […] verso il tempo dell’Altro»[11] nella piena collaborazione con Dio, al pari di Mosè.


  



[1] E. Hillesum, Diario 1941-1943, Milano 20038, 58.
[2] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 1, a. 1, co.
[3] R. Cheaib, Oltre la morte di Dio. La fede alla prova del dubbio, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2017, 25.
[4] Ibidem, 21.
[5] R. Cheaib, Oltre la morte di Dio, 40-43.
[6]  Ibidem, 72.
[7] R. Cheaib, Oltre la morte di Dio,
[8] Ibidem, 66.
[9] Ibidem, 86.
[10] Cfr. R. Cheaib, Oltre la morte di Dio, 99-156.
[11] Ibidem, 187.