Testo tratto dal volume Oltre la morte di Dio. La fede alla prova del dubbio, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2017.
Se il motivo della «morte di Dio» è assente nell’Antico Testamento, quello dell’eclissi di Dio vi sovrabbonda. La sua prima manifestazione è il silenzio di Dio, il silenzio della Parola.
Prima ancora di diventare un’eclissi drammatica, il silenzio che accompagna la storia di Dio con il suo popolo mette a dura prova la pazienza dell’umano.
Il contrasto tra dabar, ovvero parola ed evento della rivelazione di Dio, e midbar, ovvero il deserto, deserto dell’assenza, del silenzio e del nascondimento di Dio è sempre troppo pesante per il cuore della creatura umana.
Il testo dell’Esodo che apre il presente capitolo non è l’unica occasione in cui Dio tace nella Scrittura. Si ha a volte la falsa impressione che, nei tempi antichi, Dio sia stato sempre attivo e loquace, mentre adesso, ai nostri giorni, tace[1]. È questa, ad esempio, la convinzione di Sartre: «Dio è morto […]. Egli ci parlava, ma adesso tace, e noi non tocchiamo che il suo cadavere»[2]. Una simile convinzione, seppure con sfumature diverse, sottostà al famoso tema di Lessing[3]. Ma se si cercano nelle Scritture i tempi in cui Dio parla esplicitamente e le occasioni in cui la sua opera è palesemente manifesta, si è costretti a cambiare idea.
Il silenzio costituisce «il paesaggio della Bibbia». Il Creatore «di cui la Parola, certo, trapassa le immensità per giungere all’uomo, ma il cui essere intimo non può al limite che identificarsi col Silenzio»[4].
La Scrittura, parola di Dio, custodisce i suoi silenzi; silenzi che pesano perché avvengono in momenti in cui l’uomo sembra aver terribilmente bisogno della parola di Dio.
Dalla chiamata di Abramo alla realizzazione della promessa di un figlio da Sara passano all’incirca trent’anni inframmezzati da poche manifestazioni di Dio. Il resto è tempo in cui il patriarca arranca, si affatica, si lamenta con il Signore[5], esprime i suoi dubbi[6] e propone a Dio soluzioni alternative per la realizzazione della promessa[7]. Pare a volte che l’uomo voglia venire incontro a Dio con un compromesso dato che Dio sembra non venire incontro all’uomo.
Abramo vive la schiacciante esperienza del silenzio di Dio lungo l’interminabile tempo di tre giorni, mentre cammina in un assordante silenzio con il figlio Isacco verso il monte Moria[8]. Le altre vicende della vita di Isacco avvengono all’ombra di un grande silenzio di Dio.
Anche il ciclo di Giacobbe è attraversato da sostanziosi momenti di silenzio[9]. Nell’angoscioso cammino per andare incontro al fratello Esaù, dove colui che ha rubato la benedizione della primogenitura teme seriamente di venire ucciso dal fratello ingannato, Dio tace. Il testo ci racconta che «Giacobbe si spaventò molto e si sentì angustiato»[10]. Il patriarca prega ma Dio non gli parla. È Giacobbe stesso ad evocare la parola di Dio ricordando e facendosi coraggio con le promesse del Signore:
Dio del mio padre Abramo e Dio del mio padre Isacco, Signore, che mi hai detto: «Ritorna nella tua terra e tra la tua parentela, e io ti farò del bene», io sono indegno di tutta la bontà e di tutta la fedeltà che hai usato verso il tuo servo. Con il mio solo bastone avevo passato questo Giordano e ora sono arrivato al punto di formare due accampamenti. Salvami dalla mano di mio fratello, dalla mano di Esaù, perché io ho paura di lui: che egli non arrivi e colpisca me e, senza riguardi, madri e bambini! Eppure tu hai detto: «Ti farò del bene e renderò la tua discendenza tanto numerosa come la sabbia del mare, che non si può contare»[11].
La stessa benedizione di Giacobbe al guado dello Iabbok avviene in una lotta con un avversario silenzioso e misterioso. Questi sembra essere Dio, e Giacobbe pare riconoscerlo come tale, ma il testo mantiene volutamente il velo del dubbio e del riserbo.
Alla richiesta di Giacobbe – «svelami il tuo nome» – l’avversario è evasivo: «Perché mi chiedi il nome?»[12]. Capiamo il senso del rifiuto, forse, alla luce di una risposta simile data a Manòach: «Perché mi chiedi il mio nome? Esso è misterioso»[13]. Dio è «un Dio nascosto»[14].
E che dire del lungo silenzio del Signore nella vicenda di Giuseppe (da Gen 37 a Gen 46) e nel libro di Giobbe (da Gb 3 fino a Gb 38)?! Entrambi, amici intimi e prediletti del Signore, si scontrano improvvisamente con il silenzio totale dell’abbandono. Dinanzi alla durata di un tale silenzio, il quadro della prova di Abramo, scandito anche dal simbolico “tre giorni”, è polverizzato. La durata dell’avventura di queste due figure è intollerabilmente lunga, con «uno svolgimento interminabile di una durata senza capo né coda: trentadue anni per Giacobbe e Giuseppe (secondo i calcoli di Rashi), quarantacinque anni per Giobbe (secondo le stime del Midrash). Ad ogni modo, una buona fetta della vita umana, ingarbugliata e vulnerabile»[15].
Nei lunghissimi anni della prova di Giuseppe tante cose sarebbero potute accadere. Ai fratelli ritrovati chiederà se il padre vive ancora[16]. Con tutte le vicende accadute in quegli anni al giovane, quante ne avrà passate il padre? Il tempo ha un peso reale e trentadue anni non sono pochi. Per questo si può affermare che mentre nella ‘aqeda – la legatura – di Isacco «possiamo dire che l’eclissi di Dio provoca un’angoscia artificiale, dal lato di Giuseppe e di Giacobbe quest’angoscia è reale»[17].
Alla fine del libro di Giobbe, Dio parla, la provvidenza si manifesta, ma non si spiega. Dio non dà risposte, ma mostra che le vie della provvidenza sono imperscrutabili.
Nella grande esperienza mistica di Elia, scopriamo che Dio non si manifesta con effetti speciali (vento impetuoso e gagliardo, terremoto e fuoco), bensì nella «voce di un silenzio sottile»[18]. La costruzione è antinomica e paradossale, anzi, è «gravemente ironica, perché insegna all’uomo che l’unica voce di Dio è il suo Silenzio»[19].
L’esperienza del silenzio della Parola per il salmista è simile a un’esperienza di morte. Per questo supplica il Signore «Dio, non startene muto, non restare in silenzio e inerte, o Dio»[20]. D’altronde, lo sheol, la dimora della morte, è descritto come il «regno del silenzio»[21]. Quando l’uomo muore, non può lodare il Signore perché scende nel silenzio[22].
Con discrezione, il testo biblico ci parla di periodi in cui la «parola del Signore era rara»[23] e ci fa capire che i nostri tempi non sono poi così lontani da quei tempi. Siamo molto simili a quel popolo che ha vissuto il silenzio della Parola, l’eclissi della Luce senza tramonto. Siamo loro “contemporanei” dinanzi a questo scandalo, dinanzi a questa pietra d’inciampo!
I libri sapienziali non sono forse testimoni di un tentativo di far riecheggiare la sapienza divina tramite la sapienza umana, perché Dio, in fondo, spesso tace?
Come loro, anche noi – anche in queste pagine! – percepiamo il silenzio di Dio e cerchiamo di dare carne e voce alla sua Parola che dimora nel silenzio.
Tornando al primo capitolo dell’Esodo con cui abbiamo aperto la riflessione, vediamo che Dio è in silenzio, un silenzio prolungato e di un arco non meglio precisata. I due testi che abbiamo citato, infatti, danno due durate diverse. Sicuramente il testo di Genesi 15 offre un tempo più carico di simbolismo. Quattrocento, infatti, è il risultato della moltiplicazione di quaranta per dieci. Quaranta è un numero di compimento che indica anche una generazione, una vita, il decorso di un’esperienza compiuta. Dieci è un numero che rappresenta perfezione, abbondanza e molteplicità. Così quattrocento sta per dire il passaggio di numerose generazioni compiute. In tutto quel tempo, i discendenti dell’amico e dell’eletto di Dio, Abramo, stavano subendo il sopruso del faraone. E Dio tace e non interviene.
Il non meglio precisabile tempo parla a noi, parla di noi. Ricorda e rievoca quegli interminabili periodi del silenzio di Dio che anche noi sperimentiamo.
Silenzio di Dio! Interminabile durata del silenzio di Dio! Lo conosciamo bene, nella nostra vita di preghiera e nella nostra vita d’azione. Sembra talvolta che Dio sia morto, o disperatamente lontano e disattento alle nostre opere, tanto il suo mutismo è ostinato! Facciamo quel che possiamo per pregare bene e agire bene; ma ci annoiamo di essere in ginocchio davanti al vuoto, e tutte le cose intorno a noi continuano ad andare male: ingiustizia, disordine. Si direbbe allora che due attitudini soltanto siano possibili: o l’ateismo, l’accettazione dell’assurdità di tutto, o l’adorazione rassegnata di una Trascendenza assolutamente estranea alla terra, muta e sorda al grido delle creature… È necessario credere e sperare. Dove sarebbe la fede, dove sarebbe la speranza, se Dio non sembrasse assente? Bisogna credere alla Sua fedeltà, anche nell’apparente infedeltà. D’altronde, non è vero che siamo ciechi e sordi alle manifestazioni divine? Più curiosi che disponibili? Dio non risponde alla curiosità[24].
[1] Cf. A. Wénin, Dio, il diavolo e gli idoli. Saggi di teologia biblica, EDB, Bologna 2016, 14.
[2] Cf. J.-P. Sartre, «Un nouveau mystique», in Id., Situations, I, Gallimard, Paris 1947, 142-143.
[3] Cf. G.E. Lessing, «Sul cosiddetto “argomento dello spirito e della forza”» in Id., Religione storia e società, La Libra, Messina 1973, 169-179.
[4] A. Neher, L’exil de la parole. Du silence biblique au silence d’Auschwitz, Seuil, Paris 1970, 14.
[5] Cf. Gen 15,3.
[6] Cf. Gen 17,17.
[7] Gen 17,18.
[8] Cf. Gen 22; R. Cheaib, Alla presenza di Dio, 109-117; S. Gaburro, L’ironia, “voce di sottile silenzio”. Per un’ermeneutica del linguaggio rivelato, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2013, 74-75; A. Wénin, Isaac ou l’épreuve d’Abraham. Approche narrative de Genèse 22, Lessius, Bruxelles 2008.
[9] Gen 25,19 - 36,43 e 46-50.
[10] Gen 32,8.
[11] Gen 32,10-13.
[12] Gen 32,30.
[13] Gdc 13,18.
[14] Is 45,15.
[15] A. Neher, L’exil de la parole, 29.
[16] Cf. Gen 43,27
[17] A. Neher, L’exil de la parole, 30.
[18] 1Re 19,12; cf. R. Cheaib, Un Dio umano, 60-66; B. Costacurta, Il fuoco e l’acqua. Riflessioni bibliche sul profeta Elia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2009; C.M. Martini, Il Dio vivente. Riflessioni sul profeta Elia, Piemme, Casale Monferrato 1990.
[19] A. Neher, L’exil de la parole, 93.
[20] Sal 83,2.
[21] Sal 94,17.
[22] Cf. Sal 115,17.
[23] Cf. 1Sam 3,1.
[24] F. Varillon, Elements de doctrine Chrétienne, vol. I, Editions de l’Epi, Paris 1961, 107-108.
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