Un piccolo contributo al dibattito su "Dio ci tenta?" e "Non ci indurre in tentazione"... tratto dal volume Alla presenza di Dio. Per una spiritualità incarnata, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2015.
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Premetto che la domanda è volutamente mal posta. Essa vorrebbe tener conto di – ahimè – tante errate percezioni che si hanno riguardo all’agire di Dio nei confronti dell’uomo. Data la radicata confusione sussistente tra tentazione e prova, risulta necessaria una parentesi seria sulle sfumature bibliche della questione.
Senza entrare in ardue sottigliezze etimologiche, è utile notare che i termini fondamentali utilizzati nella Bibbia per parlare di tentazione e di prova tendono ad essere intercambiabili[1]. Capita addirittura, in alcuni casi, di trovare i due termini nello stesso versetto quali sinonimi complementari[2]. La differenza, quindi, non consiste tanto nelle parole usate, quanto nell’intenzionalità e nell’esito. L’intento della tentazione è trattenere nei tentacoli, asfissiare, contaminare e portare alla mortifera rottura della relazione con Dio e con gli altri. Essa concepisce peccato e genera morte (cf. Gc 1,15). L’intento della prova, invece, è liberare, promuovere, raffinare e far fiorire la vita. È un dono di grazia ed è ordinata alla comunione con Dio e con gli altri.
Le sfumature si chiariscono quando si guarda ai tre soggetti agenti a cui vengono riferiti questi termini nella Scrittura: l’uomo, il diavolo e Dio.
Per quanto riguarda l’uomo, la Bibbia ci mostra che egli tenta Dio con i pensieri del suo cuore (cf. Sal 78,18), con i suoi desideri (cf. Sal 106,14) e tramite le sue azioni (cf. Sal 78,41.56). Il Salmo 95 esprime il disgusto divino per l’atteggiamento tentatore che il popolo assume nei confronti del Signore. «Non indurite il cuore come a Merìba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere. Per quarant’anni mi disgustò quella generazione e dissi: “Sono un popolo dal cuore traviato, non conoscono le mie vie”» (Sal 95,8-10). Nel deserto Israele tenta Dio in vari modi. Non a caso, la località di Massa (Masah) richiama il termine ebraico nasah (tentare)[3], perché il popolo tenta il Signore mormorando contro di lui e contro Mosè, dubitando della presenza del Signore in mezzo a loro (cf. Es 17,7; Dt 6,16) e mettendo in forse la potenza del Signore (cf. Sal 78,41ss). Paolo ci spiega che l’uomo tenta il Signore nella dissolutezza e nella mormorazione (cf. 1Cor 10,8-10).
La lettera di Giacomo ricorda che è l’uomo che tenta se stesso: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono» (Gc 1,13-14). Dio non è tentato dal male e neppure tenta con il male, anzi, egli invita accoratamente l’uomo a scegliere la via del bene: «Prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra: io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza» (Dt 30,19; cf. Ger 21,8; Sir 15,17).
Il cuore dell’uomo si rivela come campo di battaglia dove si confrontano e si affrontano il bene e il male, Dio e il maligno. Antropologicamente parlando, «l’esperienza della prova-tentazione non è semplicemente di ordine morale; si inserisce in un dramma religioso e storico; fa giocare la nostra libertà nel tempo, di fronte a Dio e a Satana»[4]. L’ordine della tentazione, allora, non riguarda solo il peccato, ma la sapienza del vivere. L’uomo è richiamato dai saggi d’Israele a verificare se stesso, a esaminarsi, a conoscere le proprie potenzialità e i propri limiti, ad abbracciare la sapienza del limite e della moderazione, proprio perché l’eccesso di zelo potrebbe configurarsi come una tentazione: «Prima di fare un voto prepara te stesso, non fare come un uomo che tenta il Signore» (Sir 18,23). Un consiglio simile, seppure in un contesto diverso, è dato da Gesù (cf. Lc 14,28s.).
Ora, nella scelta tra bene e male, l’uomo non si muove su un terreno neutro, c’è chi rema contro. Per questo il Siracide avverte: «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione. Abbi un cuore retto e sii costante, non ti smarrire nel tempo della prova» (Sir 2,1-2). Gesù stesso è tentato da Satana (cf. Mt 4,1).
Per quanto riguarda il diavolo, egli tenta con l’intento di far cadere. È per antonomasia «il tentatore» (Mt 4,3). Espressiva è l’immagine di 1Pt 5,8: «Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare». La parola diavolo è già carica di significato, perché in greco diá-bolos è colui che “si getta di traverso”, che ostacola, che mette i bastoni tra le ruote. Tra i vari attributi del diavolo troviamo: «omicida fin da principio», «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44); «seduttore» (2Gv 1,7; Ap 12,9); «accusatore» (Ap 12,10).
Satana, l’avversario e l’accusatore, cerca di distrarre e di disperdere il cuore dell’uomo. La sua opera è il contrario della comunione, della concordia e della con-vergenza, dell’amicizia, del syn-ballein, del mettere-insieme (da cui sim-bolo). La sua opera è dia-ballein, separazione, inimicizia, segregazione, frantumazione, isolamento e di-vergenza. A ben vedere, è l’esatto contrario dell’opera di Cristo, «nostra pace», che è venuto a eliminare il muro di separazione tra Dio e l’uomo e tra i fratelli nell’umanità (cf. Ef 2,14-17). Per questo è «l’anticristo» (1Gv 2,18; 2Gv 1,7) e il promotore di un’umanità «senza Dio» (cf. Ef 2,12). Vediamo un esempio del contrasto tra l’opera di Dio e l’opera del diavolo quando Gesù dice a Pietro: «Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32).
Dio non tenta l’uomo, anzi Gesù ci invita a rifugiarci in Dio per chiedergli di non permetterci di entrare in tentazione (cf. Mt 6,13; Ap 3,10)[5]. Dio non espone al male, libera da esso. L’uomo è invitato a pregare per far spazio a quest’opera di Dio (cf. Lc 11,4). Nel Getsemani Gesù invita i suoi a rimanere uniti a Dio nella preghiera «per non entrare in tentazione» (cf. Lc 22,40.46). Contro il maligno che cerca di intrappolare l’uomo nel circolo vizioso del male, Dio offre una via d’uscita in Cristo: «Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1Cor 10,13).
Ma se Dio non tenta, egli, nondimeno, mette alla prova e per vari motivi: per mettere a nudo il cuore dell’uomo e rivelargli la propria verità profonda (cf. Dt 8,2); per spazzare via le sue illusioni e insegnare alla creatura da cosa e da chi dipende realmente la sua vita (cf. Dt 8,3); per far felice l’uomo nel suo avvenire (cf. Dt 8,16); per allenarlo a custodire l’alleanza con il Signore (cf. Gdc 2,22); per rivelare la verità dell’uomo e per aiutarlo a discernere il suo cammino, a tal punto che è il credente stesso a chiedere a Dio di provarlo. Così prega il salmista: «Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore, provami e conosci i miei pensieri; vedi se percorro una via di dolore e guidami per una via di eternità» (Sal 139,23-24).
La prova di Dio è una prova-dimostrazione di amore. Dio prova come «un padre che corregge» (cf. Sap 11,10). Prova per approvare, per far fiorire il bene che è nel cuore dei suoi figli, facendo concorrere tutto al bene di coloro che lo amano (cf. Rm 8,28). Per questo uno dei verbi usati per parlare della prova di Dio (e non usato mai come sinonimo di tentazione) è tsaraf (purificare, raffinare). Il salmista scrive: «O Dio, tu ci hai messi alla prova; ci hai purificati come si purifica l’argento» (Sal 66,10). Anche il libro della Sapienza condivide una concezione simile quando parla della prova dei giusti: «In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé; li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi» (3,5-6).
La fede, più preziosa dell’oro viene purificata e diventa un titolo di onore e gloria alla manifestazione di Cristo (cf. 1Pt 1,7). La prova diventa prova di merito. Per questo Paolo invita al vanto anche nelle tribolazioni, «sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,3-5). In altre parole, la prova ci fa provare l’essenza stessa di Dio che è l’Amore e ci fa respirare il suo stesso respiro, il Soffio dello Spirito.
Adesso siamo pronti a imbarcarci nella considerazione della prova di Abramo.
[1] Il discorso vale sia nel testo Masoretico dove i termini ebraici fondamentali sono nasah, tsaraf, bachan, sia nel testo della Settanta (LXX) dove i termini greci fondamentali sono peiràzein, diakrìnein, dokimázein. Per approfondire: J. Corbon, «Prova – Tentazione», in X. Leon-Dufour, ed., Dizionario di teologia biblica, Marietti, Torino 19683, 908-914.
[2] Ad esempio: «Scrutami [bachan], Signore, e mettimi alla prova [nasah]»; Sal 95, 9: «[…] mi tentarono [nasah] i vostri padri: mi misero alla prova [bachan] pur avendo visto le mie opere».
[3] «Tentazione» in I.H. Marshall et al., Dizionario biblico GBU, Edizioni GBU, Chieti-Roma 2008, 1576.
[4] J. Corbon, «Prova – Tentazione», 908.
[5] Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2846 spiega che la domanda del Padre nostro «liberaci dal male» va «alla radice della precedente, perché i nostri peccati sono frutto del consenso alla tentazione. Noi chiediamo al Padre nostro di non “indurci” in essa. Tradurre con una sola parola il termine greco è difficile: significa “non permettere di entrare in”, [Cf Mt 26,41] “non lasciarci soccombere alla tentazione”. “Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male” (Gc 1,13); al contrario, vuole liberarcene. Noi gli chiediamo di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato».
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