Questa non è una semplice recensione. Non solo perché è la prefazione a un libro che mi è piaciuto molto. Ma perché conosco bene l'autrice, una sposa, mamma, catechista, cristiana fervente che usa testa e cuore in tutto quello che fa... la conosco e la stimo profondamente e vi straconsiglio la lettura del suo interessante studio... era doveroso dirlo prima di "passeggiare" con voi nel libro di Francesca Capaccio, Naufraghi virtuali. Chiesa e nativi digitali: quale comunicazione?, che apre la collana "STUDI" che curo per Tau Editrice.
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Parlare di «naufraghi virtuali» evoca tanti simboli, immagini e concetti. Evoca la ormai famosa espressione baumaniana della «società liquida», una società specificamente «tecnoliquida», di dissociazione tra lo spazio e il tempo, tra il supporto materiale e l’insostenibile leggerezza della realtà virtuale.
Abbiamo infranto il rapporto – forse alcune volte pensato come sacro, infrangibile, aprioristico e trascendentale – tra spazio e tempo. Abbiamo smarrito le coordinate assiali per disegnare il volto della nostra umanità. Verrebbe da chiedersi con l’uomo folle di Nietzsche: «Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?».
Non servono sublimi e astratte riflessioni filosofiche per percepire questo spaesamento. Basterebbe guardarci attorno e dentro. Siamo profughi nel villaggio globale. Connessi ma non comunicanti. Parte di una sconfinata folla ma soli.
Siamo perennemente e dis-umanamente “disponibili” e i nostri vari strumenti smart e le nostre app lo segnalano agli altri. Siamo disponibili, anche quando siamo indisposti e indispettiti. Siamo esposti alle onde di informazioni che ci vengono proposte e anche a quelle che ci vengono chieste. Lo siamo, e il nostro status di “disponibile” non dice sempre il nostro stato d’animo, ci espone e ci rende imputabili. «Perché non rispondi?» suona l’incriminazione ripetuta… e affoghiamo soffocando in mari che erano intesi per allargare i nostri orizzonti, perché non solo lo spazio stretto ci soffoca, ma anche il cattivo infinito, l’infinito senza finalità.
Siamo nell’epoca dei saperi sconfinati conservati dai bytes (mega e giga) delle nostre memorie «secure digital» che, in un istante possono conservare una biblioteca in un hard disk grande quanto un’agenda tascabile e, il momento dopo – poco importa se per un virus fatale o per un bicchiere d’acqua accidentalmente riversato – viene cancellata per sempre, senza l’intervento di vandali o l’invasione di barbari come accadde per le grandi biblioteche della storia.
Abbiamo troppo sapere a disposizione, tanto da faticare ad assaporarlo e a farlo diventare sapienza. Siamo come quei bambini che ricevono troppi regali a Natale da non sapersi gioire di nessuno, perché la gioia richiede elezione e dedizione. La gioia della scienza richiede ascetica e concentrazione. Il troppo materiale a disposizione ci rende navigatori non navigati, assaggiatori ma non saggi.
È penetrante l’interrogativo di T.S. Eliot: «Dov'è la saggezza che abbiamo perduto nella conoscenza? Dov'è la conoscenza che abbiamo perduto nell'informazione?».
L’età dell’informazione ci ha reso più informati ma meno formati nelle conoscenze e ancor meno trasformati dalla saggezza, meno trasfigurati dal sàpere che modella non solo la testa, ma tutto l’essere.
Siamo nell’epoca degli «amori liquidi» e dei legami fragili virtuali e volatizzati come i nostri profili social. «Chi ha troppi amici non è amico di nessuno», sentenziava Arthur Schopenhauer, riecheggiando in qualche modo Aristotele. La quantità dei contatti possibili gioca a sfavore della qualità. L’apparente facilità delle connessioni sciupa la voglia e la possibilità di dedicare tempo per addomesticare l’altro e lasciarsi addomesticare. A quale domus, poi, portare l’altro, se la nostra casa è nel cloud?
L’intimità dell’amore è gravemente compromessa e il narcisismo del selfie e delle stories che durano poche ore conferisce un sentore perversamente orgiastico ai baci e agli abbracci più intimi, lanciati senza pietà nella cieca centrifuga del web.
È un manifesto malinconico? Assolutamente no. È un avvertimento e un’avvertenza per guardare a una rivoluzione che ha tanto potenziale di fioritura, ma anche tanta potenza che rischia di farci esplodere o implodere; è un progresso che rischia di decadere in un regresso se non trova un orientamento, se non individua di nuovo la Stella polare.
I multimedia, i moderni mezzi di comunicazione, esprimono la nostra sete di incontro e di comunione. Rimanere nei mezzi è rimanere nella «terra di mezzo», nel limbo.
Vittime possiamo esserlo tutti, ma sicuramente le generazioni più esposte sono le generazioni giovani, più afferrate nell’uso di internet e più afferrabili dal suo abuso.
Il testo di Francesca Capaccio ha il coraggio di descrivere i sintomi di un’epoca e soprattutto di una generazione, ma anche di prescrivere, dalla prospettiva scelta e praticata dall’autrice, cure e kairoi per abitare in modo sano e sanante il web.
Il testo, dotto ma graziosamente spigliato e non naufrago di una vana erudizione, aiuta il lettore ad avere le coordinate giuste per leggere il complesso fenomeno della postmodernità, lo porta a mettersi in dialogo con il positivo e propositivo contributo magisteriale sui nuovi media per vivere lo spazio digitale come nuovo areopago, come spazio di evangelizzazione reale perché i «naufraghi virtuali» sono persone, persone reali, amate da Gesù Cristo fino alla morte, la morte storica storica e reale sulla croce.
L’approccio dell’autrice, sensibile e sensibilizzante, non è appesantito da inutili anatemi, ma si basa su una constatazione innegabile che stigmatizza come il web sia ormai un nuovo continente trasversale: «la Rete – scrive Capaccio – non è uno strumento di comunicazione ma un ambiente dove abita l’uomo d’oggi». Capaccio, allora, si fa promotrice attenta e intenta di una lettura concreta e di una proposta plausibile per non vivere il web come ragnatela, ma come rete. Come spazio per essere «pescatori di uomini», sentendo l’incalzante invito di Gesù: «Prendete il largo e gettate le vostre reti».
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