Non si legge come gli altri un libro che raccoglie le confidenze di uno dei pochi maestri che hai conosciuto nella tua vita. Non lo si legge, lo si centellina. È così che ho letto il libro intervista a Michael Paul Gallagher, Credere e non credere. La fragilità della fede nel mondo di oggi. L’intervista è stata condotta con grande maestria ed empatia da Gabriele Palasciano.
Radici
L’atmosfera che il gesuita irlandese trasmetteva era quella di una maturazione urbana della fede. In lui si ha il sentore di una delicata radicalità. Radicalità che non è sintomo di radicalismo, ma frutto di una fede sentita, pensata e vissuta, una fede divenuta radice e, come annota giustamente Nicolas Steeves nella sua Prefazione, «un credere veramente pacato non ha bisogno di radicalizzarsi perché è già radicato in profondità».
Nell’introdurre il libro-intervista, Palasciano sottolinea tre aspetto del pensiero di Gallagher:
Il primo è epistemologico: Gallagher contesta «il riduzionismo della realtà a una sola dimensione, invitando al superamento dei residui del positivismo e del naturalismo scientifico, confrontandosi con l’eccessiva sopravvalutazione delle scienze empiriche e del modello scientifico.
Il secondo è antropologico: «Secondo Gallagher, per capire l’ateismo si doveva capire la crisi culturale e antropologica del nostro tempo». Tale comprensione richiede da un lato il superamento di una antropologia filosofica e teologica inadeguata e «l’urgenza di un nuovo approfondimento sull’uomo alla luce del Vangelo. L’essere umano gli appariva non solo abitato da un desiderio di auto-trascendenza umana, ma anche da disposizioni che lo rendono ostile all’accoglienza del messaggio evangelico e all’apertura a Dio».

Credere e non credere
Credere e non credere
Michael Paul Gallagher, Gabriele Palasciano

Il terzo elemento è esistenziale «in cui Dio non rappresenta una problematica filosofica, bensì costituisce un’esperienza di vita».
La non credenza: caos e kairos
Riguardo allo stato di salute della fede nel contesto sociale occidentale, Gallagher è realista e afferma senza giri di parole: «Si deve riconoscere che in occidente la Chiesa ha perso drammaticamente rilevanza, influenza sociale e significato, cessando così di essere il centro della vita individuale e collettiva».
Ma lungi dal vedere nel fenomeno della non credenza solo una tragedia, Gallagher invita a uno sguardo diverso: «Occorre considerare in senso positivo il fenomeno della non credenza, ovvero come una forma di “purificazione” del modo di essere credenti e dell’appartenenza ecclesiale. In tal senso si supera una visione meramente sociologica della non credenza per approfondirne il significato teologico e culturale. […] Il tema della purificazione della fede rinvia a quello delle “periferie esistenziali” così care a papa Francesco, perché occorre risvegliare il cuore stesso dell’uomo». Gallagher ricorda con Benedetto XVI che «l’evangelizzazione coincide con un risveglio del cuore».
La mediazione culturale verso l’ateismo avviene in due direzioni: ad intra e ad extra. Occorre allora nutrire una riflessione sulla prospettiva ad intra, confrontandosi con la non credenza nella fede. Tommaso d’Aquino sottolineava l’imperfezione della conoscenza nella fede, aggiungendo che il credente condivide qualcosa con coloro che dubitano, sospettano e possiedono una vaga opinione».
L’apertura dialogica del gesuita non è una candida canonizzazione della non credenza. Egli ne denota il volto duale e dialettico: «La non credenza può essere, allo stesso tempo, un’amica della fede poiché la purifica, e una nemica, in quanto non accetta la fede, ma la ostacola».
Ritrovare l’umano per rintracciare Dio
Una delle sfide del nostro tempo secondo Gallagher riguarda «la possibilità di disporre il cuore umano al ritrovamento del desiderio di Dio, in una società frammentata».
La grande sfida contro la fede non è l’ateismo teorico (tanto raro se non estinto nei nostri tempi), ma l’ateismo vissuto, pratico e indifferente. Questo ateismo è un ateismo culturale «rappresentato dall’immaginazione umana sequestrata dal mercato, che costituisce una nuova forma di idolatria. Nella Bibbia non esiste la non credenza, non è contemplato un ateismo culturale, ma esiste l’idolatria che mina la fede nell’unico Dio».
In breve, la crisi antropologica, e non quella teologica, è l’aspetto più consistente dell’ateismo contemporaneo.



Da qui l’acume e la sensibilità del Concilio Vaticano II il quale, nella Gaudium et Spes, adotta un’impostazione «non è di tipo argomentativo o di condanna, ma sollecita la lettura del contesto in cui la Parola della rivelazione non viene percepita dall’uomo». La Gaudium et spes non elabora anatemi, ma una rilettura pastorale del mondo contemporaneo, lasciandosi alle spalle «un linguaggio astratto per liberare la teologia da un modello deduttivo, accettando un modello induttivo».
Secondo Gallagher, la Gaudium et spes introduce tre novità:
- Una lettura più positiva della modernità.
- Un metodo di discernimento che parte dal basso.
- La centralità dell’uomo come via della Chiesa.
La cultura dei conflitti nascosti
Analizzando l’apertura e/o la chiusura contemporanea alla questione di Dio, Gallagher distingue tre ambiti ai quali il termine cultura rinvia:
- cultura come creazione intelligente;
- cultura come codici vissuti ma non portati a coscienza;
- cultura come conflitto nascosto.
Il secondo modello di cultura è quello dei «codici vissuti», della cultura empirica, vissuta ogni giorno. Questa cultura della strada rischia di canonizzare stili di vita che spengono o marginalizzano la ricerca di un senso ultimo.
Ma il modello di cultura al quale Gallagher invita di dedicare maggiore attenzione è quello della cultura come «conflitto nascosto» nella quale si formano, secondo l’analisi di René Girard «comprensioni erronee sia dell’esistenza che della realtà».
Qual è il ruolo della fede in un simile contesto?
Gallagher risponde: «La fede è chiamata a un ruolo attivo che consiste non solo nell’elaborazione di una critica della cultura dominante, ma anche nella proposta di alternative concrete».
Tentazioni ed occasioni della postmodernità
Se dovessimo individuare i pericoli della postmodernità della strada, dobbiamo constatare che essa è particolarmente perniciosa perché danneggia tre dimensioni dell’umanità: l’immaginazione, la memoria e l’appartenenza sociale. L’immaginazione è minacciata dalla superficialità; la memoria dalla perdita di riferimenti al passato, senza prospettive sul futuro e imprigionata in un presente astorico e l’appartenenza comunitaria è minacciata dalla perdita di riferimenti culturali e identitari.
Ma esiste anche una lettura positiva della postmodernità. Rispetto alla modernità c’è una maggiore apertura alla fede; una sensibilità alla ricerca umana; una coscienza spirituale più profonda; l’uomo postmoderno avverte un maggiore bisogno di senso e si indirizza verso nuove forme di spiritualità, anche se ambigue. David Tracy afferma che «il postmoderno sprona l’individuo a compiere un viaggio spirituale verso la religiosità, e a farlo con coraggio profetico e a volte mistico».
Rimedi
Distinguendo tra secolarismo e secolarizzazione, Gallagher abbraccia un approccio dialogico fecondato dal pensiero di due grandi che hanno analizzato il fenomeno dell’ateismo e hanno proposto vie per riallacciare l’uomo alle sue domande fondamentali. Nella prospettiva rahneriana, si tratta della mistagogia, ovvero di «uno svelare il mistero che la persona può vivere».
Nell’ottica di Ratzinger, si tratta di un delicato recupero della ragione minacciata dal sentimentalismo e dal razionalismo. Dinanzi al sentimentalismo e al volontarismo, Ratzinger afferma la forza illuministica del cristianesimo. Dinanzi al razionalismo, con un fare che ricorda le intuizioni di Newman, Ratzinger invita ad allargare la ragione e a cogliere come la ragione umana è più relazionale che razionale.
Teologia negativa e prospettiva pastorale
Per concludere questa rapida presentazione di alcuni highlights del testo, accenno a due prospettive sviluppate verso la fine del volume. La prima è quella della teologia negativa, una teologia che si riconosce limitata e che si apre alla contemplazione del Mistero trasformante, pena la sua “incredibilità”. Gallagher avverte: «Una teologia che non si limita a quanto le è consentito analizzare per mezzo della ragione rende impossibile l’apertura alla fede per l’uomo in ricerca. Superando questo limite, la teologia può condurre a un Dio incredibile, nel senso di non credibile».
Quanto alla svolta pastorale, Gallagher ricorda che non bisogna cambiare la fede, bensì il linguaggio della fede.
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