All'inizio, la madre per un bambino è tutto. È lei che lo
genera, lo accoglie, lo accudisce, gli dà il proprio corpo e gli offre la
presenza e la parola. Questa presenza avvolgente, soprattutto quando il bambino
è in grembo, a un certo momento deve lasciare andare il figlio per non
rischiare di essere oltre al suo inizio, la sua fine. Qui entrano gli altri,
soprattutto la figura paterna, per costituire l'ambiente vitale del bambino.
Giustamente, osserva Xabier Pikaza che «la realtà umana non procede (non si
esprime né si espande) a partire da un unico principio (solo materna o
paterno), bensì attraverso il dialogo o l'incontro personale fra madre e padre,
tra femmina e maschio». Questo ci è di grande aiuto per comprendere Dio. La
riflessione di Pikaza viene delineata nel testo La storia di Dio nella Bibbia. Dio come Padre e come Madre edito dalla Queriniana per la collana Giornale
di Teologia.
Il Dio biblico è creatore. In questo senso non è generatore.
Egli non ha generato il popolo a livello biologico. Non è né maschio né
femmina. Non è né padre né madre. Solo successivamente può assumere i tratti simbolici
della madre e del padre. Questo Dio che non si identifica con alcuna figura
umana, è un Dio che prende iniziativa. Si fa vicino al popolo oppresso e opera
salvezza (Cf. Es 3). È il Dio che si fa vicino, Emmanuele, facendo della
vicinanza un suo segno (cf. Is 7,14).
Nonostante il divieto di fabbricare raffigurazioni maschili
o femminili di Dio, i profeti ricorrono di fatto a varie immagini maschili e
femminili, materne e paterne, per parlare di Dio.
Pikaza evidenzia questi tratti, non solo quando vengono
usati esplicitamente i simboli maschili o femminili, ma anche quando la
gestualità di Dio esprime tratti maschili e/o femminili. Così, «l’esodo si
presenta come il momento del concepimento e dell’infanzia di Israele, fra le
mani – sotto le ali – di un Dio femminile» (48). Mentre «le numerose leggi del
Pentateuco vanno intese come espressione e conseguenza delle cure
materno-paterne di Dio, poiché derivano dalla sua presenza creatrice» (50).
Il cammino di questa teologia arriva fino a Gesù «che era
ebreo, [e] non ha dovuto inventare una teologia nuova, dato che in linea di
principio accetta la tradizione del suo popolo, per ricrearla – non negarla –
in maniera personale» (75). La novità di Gesù consisterà nell’insistenza sulla
paternità di Dio e nel collegarla all’avvento del Regno.
Il Dio del Regno, per Gesù, «è legato ai bambini, ed essi
sono i suoi rappresentanti» (81). È in questo senso che va intesa l’invocazione
filiale Abbà, la quale, pur non essendo un’esclusiva dei bambini, trova
in essi il suo senso pieno.
«Abbà non è una parola tecnica, propria dei discorsi
eruditi, bensì la più semplice fra tutte le parole, quasi onomatopeica, che il
bambino pronuncia e comprende all’inizio stesso della propria vita quando si
rivolge affettuosamente al padre, in unione con la madre (e a partire da lei)
come prima fra tutte le esperienze che sono, nel contempo, sacre e profane»
(82). Non è quindi una parola isolata, ma fa parte di una duplice relazione: immà-abbà,
madre-padre.
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