Il Cantico dei Cantici fu, fino all’epoca moderna, letto in
modo indiscutibile ed esclusivo in chiave teologica. La comprensione del
Cantico cambiò fondamentalmente nell’epoca moderna, da quando cioè si è
affermato che esso non parla dell’amore divino, ma di quello umano. Questo
processo è iniziato per mano di diversi autori come Johann Gottfried Herder,
Othmar Keel, Otto Kaiser. Keel, ad esempio, considera l’allegorizzazione del
Cantico come «una forma elegante di disprezzo del testo». Staubli celebra il
ritorno al senso letterale come un «ritorno del Cantico dall’esilio babilonese
dell’allegoresi».
Così, riassumendo, secondo il giudizio del germanista
Friedrich Ohly, «il cristianesimo dell’epoca successiva a Goethe non ha
sperimentato più nessun grande incontro religioso con il Cantico,
considerando sempre più il suo rapporto con esso come un problema
filologico-storico, se non estetico, ovvero come una questione di tradizione
inalienabile, dalla quale tuttavia non proveniva alcuno stimolo vitale».
Ma è giusto questo aut-aut? Credo di no. Lungi
dall’essere appannaggio esclusivo della lettura divina o della lettura umana,
il Cantico va guardato con quello che chiamerei “occhi calcedonesi” vedendo in
esso inseparabilmente la dimensione dell’amore umano e quella dell’amore
divino. Riassumendo quest’ottica, Ludger Schwienhorst-Schönberger, uno dei
massimi studiosi contemporanei della letteratura sapienziale e del Cantico dei
Cantici, afferma che «in questo libro, profondamente radicato nella tradizione
biblica, risuona un dialogo d’amore tra persone, che sotto l’immagine
enigmatica e l’allegoria si manifesta come un dialogo tra Dio e l’uomo».
Nel libro L’inno all’amore. Il Cantico dei Cantici,
edito dalla Queriniana, l’A. evidenzia i motivi per cui «la tradizione
cristiana ha reputato il Cantico come il libro più importante della
Sacra Scrittura per il cammino spirituale, in quanto i due punti focali della
sua teologia sono la divinizzazione dell’uomo (theopóiēsis) e l’umanizzazione
di Dio».
Come puntualizza Gregorio di Nissa, il Cantico non parla di
Salomone figlio di Davide, ma di un altro Salomone: «Forse tu pensi che io stia
parlando di quel Salomone nato da Bersabea, quello che portò sul monte mille
vittime in olocausto…? No, c’è un altro Salomone, che viene significato in
quello… Costui [vale a dire Cristo] si servì di quell’altro Salomone come di un
suo strumento».
Guardando al testo nel suo contesto, concordo con Schwienhorst-Schönberger
che «il Cantico, visto nel suo significato originale, non è certo un’allegoria,
ma nel contesto biblico che ci è stato tramandato offre senz’altro svariati
punti da cui partire per un’interpretazione allegorica». Dal contesto si
coglie un significato del testo ben diverso, cosicché è logico pensare che chi
legga il Cantico al di fuori del contesto biblico e canonico avrebbe uno
sguardo diverso da quello di chi lo legge nel contesto biblico. Già lasciarsi
interrogare dal perché questo libro fosse stato inserito nel canone biblico
risponderebbe alla perplessità riguardo all’interpretazione
allegrico-teologica. Questa lettura teologica ha giustificato l’inserimento del
Cantico nel canone.
A questo riguardo l’A. afferma in modo convincente che «il
Cantico dei Cantici non ci è stato tramandato in un contesto qualsiasi,
ma in un contesto ben determinato, cioè quello della Sacra Scrittura. Ed è solo
in questo contesto che esso è riconosciuto libro canonico dalla chiesa e
dalla sinagoga».
Per tornare all’opera dell’A., essa si inserisce felicemente
nella schiera delle opere di esegeti che recuperano in modo ragionato la
lettura teologica del Cantico demonizzata e ridicolizzata da altri.
L’A. argomenta che ciò che sostiene la lettura allegorica
del Cantico è il fatto che il rapporto da Dio e Israele nella Bibbia viene
rappresentato a varie riprese come un rapporto nuziale. Inoltre, riprendendo un’osservazione
di Yair Zakovitch, segnala che «i commentatori allegorico del Cantico hanno
trovato nella letteratura biblica abbondanti indizi per la loro interpretazione».
La questione posta dall’alternativa o dalla concomitanza
della lettura teologica e/o la lettura antropologica non è sono una questione
di continui litigi irrilevanti tra teologi ed esegeti. In gioco ci sono questioni
fondamentali di antropologia e di teologia. C’è qualcosa in comune tra il
nostro amore umano e l’amore di Dio? Si può parlare di Dio e incontrarlo nel
corso delle nostre esperienze quotidiane? Si può parlare di Dio senza
nominarlo?
Ad esempio, nel Cantico non ricorre nemmeno una volta il
nome di Dio. Eppure, nello stesso testo ricorre per 26 volte il sostantivo Dodhi,
«amato mio». Ora, questo numero, che non dice nulla a chi è estraneo al mondo
biblico, dice molto a chi conosce il valore di questo numero che altro non è
che il valore numerico del Tetragramma, YHWH. L’amato, il Signore, non è
nominato, ma è onnipresente. È significativa la scoperta di una stele di Mesha,
re dei Moabiti, datata alla metà del IX
secolo a.C., che porta una iscrizione dove Yhwh viene designato con il termine
Dodhi (cf. anche Am 8,14; e il cantico della vigna in Is 5).
In breve, il linguaggio allegorico del Cantico è, come dice
san Gregorio Magno nell’apertura del suo Commento al Cantico dei Cantici, una
specie di strumento per elevare di nuovo a Dio l’anima, che è diventata
insensibile alle percezioni spirituali dopo il peccato. In considerazione, poi,
dei forti collegamenti del Cantico con altri testi biblici, lo si può
considerare – come specifica Yair Zakovitch – «una specie di enigma che si
chiarisce gradatamente».
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