Nell’arena dell’esistenza, la sofferenza non è una problema,
ma una realtà. Tanto che la sofferenza è considerata «la rocca dell’ateismo»
(così Goerg Büchner).
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato», sulla scia di
J. Moltmann, Gisbert Greshake – nel suo libro Perché l’amore di Dio ci lascia soffrire – sostiene che chi segue Gesù non può esimersi
dall’affrontare questo interrogativo del suo Signore morente; deve piuttosto
cercare una riposta al perché del dolore, a fronte della fede in un Dio buono e
onnipotente. E inoltre: non soltanto Gesù ha lottato per trovare un senso alla
propria sofferenza, ma già nell’Antica Alleanza questo interrogativo sul perché
veniva posto in continuazione con accanimento indagatore, cercando di darvi
risposta nelle maniere più diverse, sino al momento in cui, alla fine, nella
croce e nella risurrezione di Gesù, il problema pressoché insolubile appare in
una nuova luce.
La questione della sofferenza non è estranea per il
credente. Anzi, la sua fede in un Dio buono e amante della vita, rende questa
domanda ancora più acuta e urgente. Davanti all’infinità dei volti della
sofferenza il credente si chiede: «dov’è Dio?», certo che non può fare proprie
le opzioni di Lattanzio che, citando Epicuro, formula così: «Dio o vuole
cancellare il male e non può; o lo può e non lo vuole», lasciandoci così
davanti a due opzioni insostenibili: o Dio è malvagio o Dio è debole».
Va riconosciuto che il dolore, anche da credenti, ci rimane
incomprensibile, rimane un mistero. E giustamente, Rahner osserva che
«l’incomprensibilità del dolore è un frammento dell’incomprensibilità di Dio».
Ma tale associazione non consola, soprattutto chi sta soffrendo.
L’incomprensibilità del dolore, però, non dovrebbe portarci né all’indifferenza
verso il problema né a risposte facili che creano, a lungo termine, problemi
più grandi.
Gli interrogativi che Greshake affronta sono diversi, in
questa breve presentazione vorrei soffermarmi solo sulla questione del rapporto tra la sofferenza e l’onnipotenza
di Dio. Riprendo la provocazione di Epicuro prendendo per scontato che Dio è buono, ci chiediamo, perché allora non
elimina il male? Forse perché è impotente?
Per rispondere, parto dialogando con un ricco testo di Kierkegaard
che Greshake presenta: «Il massimo in assoluto che si può fare per una creatura
è renderla libera. È appunto necessaria l’onnipotenza per fare questo. Sembra
strano, dato che proprio l’onnipotenza dovrebbe rendere dipendenti. Ma se si
vuole immaginare l’onnipotenza, si vedrà che proprio in essa deve esserci la
determinazione a sapersi ritrarre a tal punto nell’espressione di sé che
proprio per questo ciò che è sorto attraverso l’onnipotenza può essere
indipendente. […] Soltanto l’onnipotenza può ritrarre se stessa mentre si dona,
e questo rapporto costituisce appunto l’indipendenza di chi riceve.
L’onnipotenza di Dio, quindi, è la sua bontà. La bontà, infatti, è donare in
maniera totale, ma in modo che, ritirandosi gradualmente, si rende indipendente
chi riceve. Ogni potere finito rende dipendenti, soltanto l’onnipotenza può
rendere indipendenti, suscitare dal nulla qualcosa che sussiste in sé
attraverso il fatto che l’onnipotenza ritira costantemente se stessa».
La cosa più incredibile e inconcepibile è che l’onnipotenza,
e solo essa, è capace di produrre una creatura autonoma rispetto
all’onnipotenza. «L’onnipotenza di Dio, perciò, non fa concorrenza alla libertà
dell’essere umano, ma ne è la condizione: Dio agisce come potere liberatorio
personale».
Quindi la soluzione del triangolo – male-bontà-onnipotenza –
non consiste nell’esclusione dell’onnipotenza di Dio, ma nel comprenderla nel
suo vero senso. «La soluzione non può essere disconoscere a Dio la sua
onnipotenza, bisogna invece intendere l’onnipotenza di Dio come potenza del
suo amore». L’amore non può che rendere l’altro libero perché. Il male
esiste perché Dio ci prende sul serio. Si pone discretamente alla nostra porta
e bussa.
Sebbene sia comprensibile, la suddetta spiegazione non ci
esime dall’obiezione di chi chiede: ma che razza di amore è quello di chi – per
amore! – starebbe a guardare Auschwitz, soltanto per rispetto della libertà
dell’essere umano?
A questa obiezione, Greshake presenta una contro-obiezione:
«Come sarebbe sostenibile sul serio un Dio che revoca il senso della creazione
(cioè l’amore, che è possibile soltanto nella libertà) con un intervento
prodigioso ‘dall’altro’ ogni volta che la libertà sta per sbagliare
colpevolmente? Un simile deux ex machina è veramente concepibile o non è
piuttosto del tutto assurdo?», e ancora: «Un Dio che, in virtù della sua
onnipotenza e della sua bontà, impedisse la sofferenza, renderebbe impossibile
l’amore (che presuppone la libertà). L’amore senza dolore sarebbe quindi come
un ferro ligneo o un cerchio triangolare».
Non solo, ma Dio entra nel dolore (che permette permettendo
la libertà dell’uomo). «Dio – afferma una massima rabbinica – si pone sullo
stesso gradino dei cuori piegati». Questo detto fa eco a Isaia che afferma: «In
luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umili»
(Is 57,15).
Questa realtà della prossimità di Dio si fa presenza e
vicinanza carnale in Cristo. «Il Figlio di Dio sopportò così la frattura
generata dal peccato tra il sì incondizionato di Dio alla creatura e il no di
risposta dell’essere umano a Dio, soffrendola nel proprio cuore e sul proprio
corpo. Così la croce fu la conseguenza dei suoi sforzi e del suo impegno contro
il dolore. Perciò essa “non è proprio approvazione della sofferenza, è
rivolta contro di essa” ».
In Cristo, Dio ha pagato in prima persona.
In breve, Greshake spinge la domanda: «Perché il dolore» e
«Da dove viene il dolore» verso altri lidi: «Dove porta il dolore? Dove lo
conduce Dio?».
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