«Dio non ascolta colui che nella preghiera non ascolta se stesso»[1]. La
presenza a se stessi è una necessaria condizione per essere presenti a chiunque
altro e in modo particolare all’Altro, a Dio. Nulla soffoca la vita di preghiera come un’anima
che fugge se stessa[2].
È di vitale importanza, però,
capire che la presenza a sé non è l’obiettivo primo e ultimo della preghiera. È
bene quindi ribadire rigorosamente che la preghiera non è una meramente una
psicologica presenza a se stessi. La vita spirituale, e la preghiera in senso
particolare, non sono esercizi di autoterapia, ovvero una versione religiosa di
quel tipo di psicologia popolare conosciuto come “self help”. La vita
spirituale non è un soliloquio, ma è un dialogo. «L’invocazione della
preghiera chiama lui e chiama me ad essere presenti, a esistere l’uno per
l’altro. Chi cerca di raccogliersi in essa, si sa chiamato ad essere “davanti a
lui”»[3].
Nella vita spirituale, non si tratta – come puntualizza Anthony Bloom – di
un viaggio all’interno di noi stessi, quanto di un viaggio attraverso
noi stessi. Attraversiamo la nostra interiorità per incontrare nel fondo e
nel profondo dell’anima colui che è più intimo a noi di noi stessi. Bloom
riprende la lezione dei grandi Padri, specie di san Giovanni Crisostomo, il
quale insegna che «chi trova la porta del proprio cuore, scoprirà che è la
porta del regno di Dio»[4].
Non bisogna stancarsi di ribadire questo passaggio sostanziale, pena la
riduzione della qualità di presenza spirituale nella preghiera a semplice presenza
psichica e – a volte – psicotica a se stessi. Esorcizzare “l’assenza dal
presente”, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, è preludio e
componente necessaria dell’essere “presenti al Presente”, ovvero a Dio. Questo è
l’elemento distintivo cristiano della preghiera, della meditazione e della
contemplazione: il centro non sono io, è l’Amato. Ed è lì che la preghiera
cristiana fa i suoi miracoli. Essa spalanca il cuore all’Amore. In poche e
semplici parole: io non prego per sentirmi bene; prego perché amo, amo Dio. Che
questo amore mi faccia sentire bene, è un altro conto. È un effetto ben
accetto, ma non è la finalità. Ciò che conta è l’incontro con Dio e la
trasformazione della mia vita secondo il suo volere. La preghiera è una
concentrazione decentrata.
Santa Teresa d’Avila descrive la qualità della presenza in preghiera in
termini di amicizia e di amore reciproco. In un passo famoso della sua
autobiografia definisce la preghiera così: «Per me l’orazione mentale non è
altro se non un rapporto d’amicizia, un trovarsi frequentemente da soli a soli
con chi sappiamo che ci ama»[5].
Un’altra rilevante attestazione sulla preghiera intesa come presenza ci
giunge da un carmelitano di nome Nicholas Herman, noto meglio come fra Lorenzo.
Questi era un semplice frate carmelitano morto nel 1691. Di lui, apparentemente,
non è possibile evidenziare alcuna particolarità di spicco. In quella vita
ordinaria nella cucina della comunità religiosa a Parigi, quell’uomo semplice
ha raggiunto un alto grado di perfezione vivendo alla presenza di Dio. Chi
viveva con lui testimonia che persino il suo aspetto era edificante al punto
che invogliava spontaneamente al raccoglimento e alla preghiera. Egli manteneva
in tutte le faccende e le occupazioni quotidiane un senso di presenza spirituale
che trapelava dal suo volto.
[3] J.
WERBICK, Padre nostro. Meditazioni teologiche come introduzione alla vita
cristiana, Queriniana, Brescia 2013, 39.
Robert Cheaib
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