Il secondo estratto per la quaresima si sofferma sulla domanda delle domande: Perché il dolore? Perché il male? In Oltre la morte di Dio mi soffermo sulla questione da diverse sfumature. Nell'estratto di oggi, abbozzo la problematica a partire da alcuni schizzi biblici. Buona lettura e buon cammino.
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Percorrendo le Scritture, si nota che in
numerose occasioni le condizioni di vita di Israele diventano difficili nella
misura in cui il popolo si allontana dal Signore. Adorando la vanità il popolo
diventa vanità[1]. Sembra, però, che la grande persecuzione contro il popolo all’inizio
del libro dell’Esodo faccia parte di quelle eccezioni in cui la persecuzione
non è conseguenza del peccato.
Sulla base della teoria retributiva, alcuni
rabbini hanno cercato di suppore un peccato di Israele che «converte l’amore
con il quale gli egiziani hanno amato Israele in odio»[2]. Il passo di Esodo, però, non
evoca esplicitamente alcun episodio specifico. Con il silenzio sul motivo dell’avvento
del nuovo faraone che non conosce Giuseppe, il testo biblico esorcizza la
logica retributiva secondo la quale ogni avvenimento della vita è strettamente
connesso a quello che abbiamo fatto e meritato.
La legge del karma non è né biblica né
evangelica, semplicemente perché nega l’autonomia della creazione e la libertà
delle creature umane. Non tutti i mali sono un castigo divino. Il libro di
Giobbe mostra l’assurdità e l’insostenibilità della teoria della retribuzione.
La storia, sia quella collettiva sia quella
individuale, smentisce la candida idea che, già su questa terra, il male
colpisce i cattivi, mentre il bene premia i buoni. Diversi salmi prendono atto
delle sofferenze del giusto, da un lato, e del successo dei malvagi, dall’altro,
invitando a non invidiare questi
ultimi, perché la loro sorte sarà la rovina[3].
Le difficoltà non colpiscono solo i malvagi. Anzi,
il Siracide ci ricorda che le tentazioni e le croci perseguitano soprattutto
che si mette alla sequela del Signore, motivo per cui è necessario essere
pronti alla tentazione.
Figlio, se ti presenti per servire il Signore,
preparati alla tentazione. Abbi un cuore retto e sii costante, non ti smarrire
nel tempo della prova. Stai unito a lui senza separartene, perché tu sia
esaltato nei tuoi ultimi giorni. Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle
vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti
nel crogiuolo del dolore. Nelle malattie e nella povertà confida in lui.
Affidati a lui ed egli ti aiuterà, raddrizza le tue vie e spera in lui[4].
Con il suo insegnamento, Gesù mostra che non è
lecito collegare in modo inscindibile le disgrazie al peccato personale. Il
mistero dell’iniquità non può essere ridotto a un banale schema di causa-effetto.
Tra i vari insegnamenti del rabbi di Nazareth, vediamo la sua riflessione sulla
tragedia dei Galilei, «il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a
quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: “Credete che
quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale
sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso
modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le
uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?
No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”»[5].
Gesù non nega il peso dell’iniquità, il male
che dal primo peccato fino all’ultimo ha scombussolato e continua ad
attanagliare la storia. Nondimeno, egli nega il nesso diretto, ingenuo e
automatico tra il male fatto e il male subito. Il suo invito è alla conversione
e non alla speculazione sul male. Questo stesso concetto è ribadito nell’episodio
del cieco nato:
Passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i
suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori,
perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori,
ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo
le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando
nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo»[6].
Con grande lucidità, Gesù mostra che la
lettura dei segni dei tempi – un’arte di discernimento a cui egli stesso invita[7] – non è un processo superficiale o logico-deduttivo. Essa richiede il
dono dello Spirito e l’ascolto del Signore che tutto scruta, tutto conosce e
guarda ai segni dei tempi[8]. In una linea simile all’invito del Siracide, Gesù invita chi lo segue
a fare bene i calcoli per vagliare la propria prontezza a seguire Gesù[9] e a portare la propria croce dietro a lui[10].
Senza il minimo intento di aprire l’intricato
capitolo della teodicea, faccio mie le conclusioni di Paul Ricœur nel suo
piccolo saggio sul male[11]. Per cominciare, Ricœur mostra le lacune e le aporie di diversi
approcci che pretendono di risolvere il problema del male. La sua critica parte
dal modello mitico, passando per quello sapienziale (della retribuzione) e per
lo stadio della teodicea, giungendo, infine, allo stadio della dialettica
spezzata (essenzialmente in Karl Barth).
Al di là di tutti questi stadi speculativi,
Ricœur si domanda alla fine: «La saggezza non consiste forse nel riconoscere il
carattere aporetico del pensiero sul male, carattere aporetico
conquistato dallo sforzo stesso per pensare di più e altrimenti?»[12]. Riconoscendo l’irrisolvibilità teorica del problema del male, il
filosofo francese sposta la questione del male e del dolore (innocente) dalla
dimensione speculativa, alla dimensione pratica e operativa. Al cuore della sua
proposta in tre operazioni – pensare, agire, sentire – il male viene visto
essenzialmente come «ciò che non dovrebbe essere» e, in quanto tale, come ciò
che va combattuto.
La domanda fondamentale non è perché esiste
il male, bensì che fare contro il male. Non è da dove viene il
male, ma come arginare ed eliminare il male.
[1] Cf. Ger 2,5.
[2] Cf. Midrash
Rabbah, Shemot I, 8.
[3] Cf. Sal 1,5;
12,9; 12,1-9; 37,9.20.34; Sal 73,2-3.12.
[4] Sir 2,1-6.
[5] Lc 13,1-5.
[6] Gv 9,1-5.
[7] Cf. Mt 16,1-4.
[8] Cf. Sir 42,18.
[9] Cf. Lc
14,25-33.
[10] Cf. Mt 16,24;
Mc 8,34; Lc 9,23.
[11] P. Ricœur, Il male. Una
sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 20075.
[12] Ibid., 46.
Robert Cheaib
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