Il lavoro? Porci questa domanda a
fine settimana è da temerari, è vero, ma se pensiamo alla nostra vita come una
missione, come escludere il lavoro che a volte occupa interamente le nostre
giornate? È impossibile e sarebbe addirittura disonesto. Sono missionario solo
a casa? E al massimo in parrocchia o in associazione? E a lavoro? Smetto di
esserlo? Sembra assurdo, ma non è raro sentir dire di qualcuno che seppur
frequenta la parrocchia oppure è super impegnato in attività di volontariato, che
sul luogo di lavoro assume tutt’altro atteggiamento.
Ognuno di noi ha il dovere di
esaminare il suo modo di vivere il lavoro, di vivere il luogo di lavoro e di
condividere la vita con i suoi colleghi e colleghe. E, se si tratta di un
lavoro a contatto con altra gente, pazienti o clienti, qual è il nostro modo di
rapportarci agli altri?
Se ci fermiamo a riflettere anche
solo un attimo, la nostra vita non è altro che un incrocio di missioni e ciò è
di una bellezza disarmante, perché le combinazioni sono davvero infinite e irripetibili.
Ed è proprio questa unicità che aumenta il grado di difficoltà. La mia missione
quando incrocia la tua non intende assolutamente scontrarsi, ma vuole solo farsi
ponte.
«Io lavoro perché devo, non perché
voglio. Ne farei tranquillamente a meno!»: è un qualcosa che ciascuno di noi
avrà detto o, nella migliore delle ipotesi, almeno pensato. Lavorare non è
certo una passeggiata panoramica che include una sosta con aperitivo con
vista. No, certo che no. Spesso lavorare si trasforma in una vera e propria
arrampicata, una delle più complicate scalate che deve vedersela con tanti
ostacoli e con la difficile gestione della vita famigliare ed affettiva. Il
lavoro è parte integrante della vita, la completa e la integra, ma non è
esclusiva, una palestra fuori casa nella quale allenarsi (fa parte delle
missioni speciali e segrete!), non chiudendo le porte al resto, alla vita
affettiva e a quella sociale.
Qualche tempo fa, preparando un
incontro per famiglie con bambini in età pre-scolare e scolare, mi sono
imbattuta nella lettura degli scritti di San Josemaria Escrivà. A colpirmi è
stata subito la sintesi-slogan del suo programma: “Per la maggior parte degli
uomini la santità consiste nel santificare il proprio lavoro, nel santificarsi nel lavoro e nel santificare gli altri per mezzo del lavoro,
realizzando così l’incontro con Dio lungo la strada della propria vita”,
a sottolineare come una vita lavorativa e professionale vissuta in senso
cristiano, possa essere non solo benefica per il mondo produttivo, ma possa
trasformarsi in preghiera vivente e in una vera e propria attività di
apostolato.
Nel suo libro Cammino, il cui titolo è già illuminante
ed indica un itinerario non compiuto ma che si snoda tra le strade e le vie del
nostro quotidiano, il santo presbitero scrive così:
“Se mi dicono
che Tizio è un buon cristiano, ma un cattivo calzolaio, che me ne faccio?
Se non si sforza di imparare bene il suo mestiere, o di esercitarlo con cura,
non potrà santificarlo né offrirlo al Signore; perché la santificazione del lavoro quotidiano è il cardine della vera
spiritualità per tutti noi che — immersi nelle realtà terrene —
siamo decisi a coltivare un intimo rapporto con Dio”.
Non si può essere cristiani solo
la domenica, siamo chiamati ad essere santi nella ferialità. Mi permetto di
riportarvi a riguardo un’altra breve riflessione di San Josemaria Escrivà.
“A
quegli studenti e a quegli operai che mi seguivano negli anni Trenta io solevo
dire che dovevano saper materializzare la vita spirituale…Volevo allontanarli
dalla tentazione di condurre una doppia vita; non possiamo essere come gli
schizofrenici, se vogliamo essere cristiani: vi è una sola vita, fatta di carne
e di spirito, ed è questa che deve essere piena di Dio…”.
E’ una missione impossibile? Difficile sì, perché deve fare i conti con la nostra
umanità, ma non impossibile. La nostra missione, in fondo, non è altro che il
migliore dei contratti che un lavoratore possa desiderare: Dio chiede a tutti
un tempo pieno e indeterminato!
Maria Marzolla
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