di Monica Landini

Recensione di Oltre la morte di Dio. La fede alla prova del dubbio, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2017.
Un libro appassionato che mi ha spinto, soprattutto dopo la lettura del capitolo IV (Dio nel desiderio), a scrivere questa breve riflessione. In effetti Oltre la morte di Dio, come indica lo stesso autore, può essere considerato come un percorso esistenziale che partendo dalla nostra umanità secolarizzata e spesso indifferente alla questione di Dio, recupera - grazie ad uno sguardo interiore su noi stessi e sulla nostra vita – un’apertura alla trascendenza. Nella ricerca dell’uomo capita infatti di inciampare in Dio, proprio grazie a quei dubbi, a quelle domande che sorgono nello spazio di libertà che Dio ci ha lasciato per poterci “fare” uomini autentici – non burattini - e che per questo vanno coltivate, favorite, abitate con coraggio. La dimensione del “forse”, delle questioni irrisolte, del dolore, del silenzio (di Dio), ma anche del desiderio, possono essere considerate come casse di risonanza che, se ci mettiamo in ascolto, ci conducono verso un’umanità piena “a immagine e somiglianza” di Dio. Trovare l’uomo significa al tempo stesso ritrovare l’apertura a Dio, ad una dimensione che ci è autenticamente più consona ed è per questo che le due ricerche sono correlate e garanzia di equilibrio l’una per l’altra: al folle di Nietzsche che annuncia la morte di Dio e la perdita di ogni orizzonte di senso, l’autore affianca il filosofo cinico Diogene con la sua ricerca dell’uomo. Entrambi portano una lanterna pur in pieno giorno, simbolo della loro permanente insufficienza.
Il silenzio di Dio che oggi la maggior parte degli uomini occidentali respira quotidianamente può essere dunque uno spazio ideale per le domande, rivelando la faccia positiva della secolarizzazione, quella dell’ateismo della creazione. Il mondo infatti è lo spazio che Dio ha lasciato all’uomo per realizzare la sua divinizzazione: così è stato per Mosè, figura paradigmatica e ricchissima che accompagna tutto lo sviluppo del libro.
Il cammino di Mosè parla all’uomo di oggi perché è pieno di tutte le contraddizioni di una vita ricca, opulenta eppure non soddisfatta, una vita seguita dall’amore invisibile di Dio di cui Mosè si rende conto solo quando vive la sua povertà esistenziale e materiale (il roveto ardente simboleggia proprio questo). Ma che cosa lo spinge a lasciare la sicura agiatezza del palazzo del faraone e a farsi prossimo dei suoi fratelli ridotti in schiavitù? Quale desiderio è mai questo? Eppure come ci mostra l’autore, il desiderio è un motore propulsivo nella vita dell’uomo: qui entriamo nella seconda parte del libro che è una mistagogia del mistero di Dio che suscita profonda meraviglia; solo possibili “inizi” quelli proposti dal professor Cheaib, che mira più che a dare risposte, a risvegliare un dibattito sulla fede (le domande infatti spingono avanti, le risposte sono spesso full stop, macigni nel cammino di fede), indicando così un Oltre che è stato progettato da Dio per ognuno di noi e quindi per tutti.

Facendomi coinvolgere da questo compagno di viaggio – Mosè appunto – sono tornata alle sorgenti della mia relazione con Dio, alla mia conversione, quando mi sono destata in pieno esodo, finalmente consapevole della salvezza operata da Dio nella mia vita. Proprio riguardo a questo vorrei anticipare fin d’ora un concetto ritrovato nella conclusione: è a partire dalla scoperta dell’essere amati da Dio (quindi dalla salvezza) che possiamo parlare poi della fede in Lui. La scoperta dell’esistenza di Dio – in altre parole – è possibile solo successivamente alla salvezza: come per Israele, così è stato per me.
Un aspetto che mi ha molto colpito e di cui vorrei sottolineare l’importanza è il silenzio di Dio che sembra contraddistinguere la nostra difficile epoca postmoderna, ma che può essere, come abbiamo sopra già accennato, foriero di nuove possibilità.
Al silenzio di Dio non avevo mai pensato in termini biblici: la Bibbia, questa vastissima biblioteca che parla all’uomo della relazione con Dio e con il creato e che è Parola di Dio, custodisce paradossalmente più i suoi silenzi che le sue parole. L’accostamento fra dabar e midbar, come due facce della stessa medaglia, ha aperto in me un nuovo orizzonte di riflessione alla luce del quale trovano uno spazio nuovo tanti interrogativi custoditi senza alcuna risposta; posso forse collocare qui, in questo deserto del silenzio di Dio, la storia straziante del nostro Novecento? Acquistano adesso un differente spessore anche le parole di Etty Hillesum: «E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio». Proprio il silenzio di Dio ci spinge così a recuperare la nostra responsabilità di “dominatori” del creato, cioè responsabili del mondo e dei nostri fratelli, di annunciatori di Dio; si tratta di un silenzio paradossalmente vitale per noi, non meno che la sua Parola, perché ci permette di realizzare il “sogno di Dio” su di noi, di realizzare la nostra umanità in Cristo – vero Dio e vero uomo - proprio in questo spazio e in questo tempo.
Potrei definire Oltre la morte di Dio anche come un libro di re-incontri, in cui è possibile scavare moltissimi livelli di lettura: ho ritrovato nelle sue pagine uomini e testimoni fondamentali per la mia vita e per la mia esperienza di fede da Sant’Agostino a C.S. Lewis, e poi Pascal, Etty Hillesum, Heschel, Frankl solo per citare i più significativi per me (e posso immaginare quanti invece ne abbia tralasciati…).
Fra questi autori ho trovato anche Massimo Recalcati che nel suo libro Ritratti del desiderio apre il tema del desiderio utilizzando una strana e potente immagine: quella dei desiderantes di cui Giulio Cesare parla nel De bello Gallico. Chi sono i desiderantes? Sono soldati sopravvissuti alla battaglia che sotto un cielo stellato attendono il ritorno dei propri compagni in pericolo di vita poiché ancora impegnati nel combattimento. La potenza di questa immagine sta nel fatto di mettere in rilievo alcuni aspetti fondamentali del desiderio: l’attesa e la veglia. Nell’etimo vi è anche l’elemento di lontananza (dato dal de privativo e sideribus l’ablativo plurale di sidus, stella appunto) e quindi, la lontananza da ciò che è necessario alla vita, lontananza e ricerca della propria stella, in altre parole da/di Dio. Di questo desiderio Recalcati ci fornisce un ritratto che nel suo libro viene definito “desiderio dell’Altrove”, una dimensione del desiderio correlata alla povertà personale e alla ricchezza dell’alterità. Questo desiderio che apre alla trascendenza, Recalcati lo raffigura con l’immagine di una persona in ginocchio, in preghiera, poiché sperimenta la dimensione umana come esposta ad un’insufficienza radicale: l’esistenza della creatura non è infatti padrona né della sua origine, né del suo fine. Il “desiderio dell’Altrove” riflette una dimensione di permanente insoddisfazione, che non si illude però di poter essere superata nell’appagamento degli oggetti, ma rivolge piuttosto uno sguardo all’Alterità che diviene desiderio di Dio – il desiderio purificato di tutti i desideri - come sottolinea Cheaib. Si potrebbe obiettare tuttavia che questo passaggio dai desideri al desiderio di Dio può non avvenire, poiché l’uomo può rinunciare a “togliersi i sandali”, come Dio impone a Mosè: la forza però della domanda posta dal desiderio inappagato rimane tutta e con C.S. Lewis possiamo così brillantemente argomentare: «Le creature non nascono con desideri il cui appagamento non esiste. Un bambino sente la fame; bene esiste qualcosa come il cibo. (…) Se trovo in me un desiderio che nessuna esperienza in questo mondo può soddisfare, la spiegazione più probabile è che sono stato fatto per un altro mondo» (da Il Cristianesimo così com’è).
Il desiderio di Dio si placa nella misura in cui l’uomo ritorna a Dio e qui prendo a prestito le parole sublimi di Sant’Agostino «E’ vero infatti che tu ci hai creati per te e il nostro cuore non ha quiete, finché non riposa in te» (Confessioni I, 1).
Quest’ultima citazione mi permette di introdurre un altro di questi incontri presenti nelle pagine di Oltre la morte di Dio che è proprio quello con Agostino che si è mantenuto lungo tutto lo sviluppo del testo, ma particolarmente forte all’inizio e nell’ultima parte del libro: Agostino infatti parte proprio dalla ricerca sull’uomo per arrivare a Dio ed invita ad un viaggio introspettivo che non è ripiegamento su se stessi, ma scoperta della radice dell’esistenza: «Ero diventato a me stesso un grave problema: chiedevo al mio spirito perché fosse triste e perché mi agitasse tanto; ma non sapeva rispondermi» (Confessioni IV, 4). Ecco uno stato d’animo comune, familiare alla maggioranza degli uomini: chi parla è un giovane insegnante di poco più di vent’anni, Agostino appunto, che sperimenta sulla sua pelle il dolore, il senso di smarrimento e d’impotenza di fronte alla vita, o meglio in questo caso, di fronte alla morte di un amico che non riesce a superare. «Chi sono? Da dove vengo? Dove sono diretto e perché?» Queste da sempre le grandi domande dell’uomo che, una volta affacciato alla vita, sorgono spontanee e che si portano dietro il peso dell’angoscia. Questo senso d’insoddisfazione che sembra crescere di pari passo alla statura, può essere tuttavia – come ben evidenziato da Cheaib – una grande opportunità, un trampolino di lancio verso ciò a cui tutti tendiamo: la felicità vera e quindi duratura, stabile, eterna. Eppure rimaniamo liberi di abbracciare consapevolmente la scelta dell’Ãœbermensch di Nietzsche, cioè di un uomo che vive senza Dio e che, così facendo, preferisce spazzare via il suo orizzonte.

Oltre la morte di Dio
Oltre la morte di Dio
Robert Cheaib

Agostino sceglie Dio e lo ritroviamo nell’epilogo del libro, quando l’autore mostra Dio nell’Amore: Agostino riesce a declinare tutto il tema dell’amore in Dio perché è per lui sia principio di conoscenza   si conosce solo ciò che si ama – sia principio dell’esperienza che vive nello stile di vita cenobitico e comunitario delle relazioni con il prossimo: in Dio amiamo le creature come Dio per primo ci ha amati gratuitamente donandosi totalmente nel Figlio Gesù Cristo.
È proprio questo che è successo a Mosè che, nella conclusione del libro, viene presentato come figura tipologica di Gesù Cristo: egli infatti rifiuta la sua elezione proposta da Dio e intercede per salvare il suo popolo, preferendo sacrificare se stesso a vantaggio di Israele che pure ha appena mostrato la sua infedeltà costruendo un vitello d’oro; nonostante questo, Mosè li ama, come farà Gesù sulla croce quando dirà «Padre perdonali perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Cosa ha trasformato così potentemente Mosè? L’amore di Dio, attraverso la loro relazione (che si realizza nella preghiera, nel dialogo anche supplice con Dio) che ha il potere di trasformarci nel “sogno di Dio” sulle sue creature; così miti e umili di cuore possiamo essere autentici testimoni di Dio in questo nostro mondo e portare la sua salvezza che oggi passa attraverso noi, attraverso il nostro amore in cui Dio è sempre operante, così come per Israele è passata attraverso la breccia aperta da Mosè. Chi vive dunque la propria vita mettendo al centro Dio in tutte le situazioni, sia quelle irrisolte del dolore e della morte, sia quelle vitali della salute e della forza, diviene esso stesso “prova dell’esistenza di Dio”: quest’uomo testimonia simbolicamente un passaggio, come per/da Mosè (MSH = Moshè) al Nome (HSM = Hashem).
Vivere l’amore in ogni sfumatura dell’umano ci rende presenza autentica di Dio perché con Giovanni possiamo dire «E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4, 16).
Per concludere vorrei sottolineare che la dimensione della ricerca di Dio, così strettamente legata alla fede e all’eccentricità dell’uomo, non può concludersi mai: l’orizzonte ci porta sempre verso un oltre che è l’infinito, ma a volte Dio ci sorprende, si dona, si svela, rivelandosi: è il caso di Mosè che pur essendo divenuto suo amico, vive con il desiderio di vedere Dio, ovvero di unirsi a lui, ma che teneramente Dio copre al suo passaggio (Es 33, 19-23); è il caso di tanti convertiti sorpresi dalla gioia (come racconta C.S. Lewis nella sua autobiografia), così come è stato per me.






Robert Cheaib
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